Shakespeare drammaturgo o economista? Questo è il problema

È quanto ci si potrebbe chiedere richiamando un suo celeberrimo verso. In questo caso la risposta è molto più semplice di quella che cercava Amleto: Shakespeare fu entrambe le cose

«Ho una laurea in Scienze politiche, ma probabilmente ho imparato di più leggendo i romanzi che i libri di testo», ha dichiarato non molto tempo fa Barack Obama nel corso di un incontro alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh (Pennsylvania). E se il presidente uscente degli Stati Uniti parlava ovviamente delle sue competenze di governo, lo stesso si potrebbe certamente dire facendo riferimento al mondo economico. Perché la letteratura ha per vocazione il racconto della realtà in ogni suo aspetto, anche se attraverso storie di fantasia, e per questo non può certo ignorare elementi imprescindibili dell’esperienza umana come la politica o, appunto, l’economia. Come immaginare la vita di un personaggio senza mai accennare al suo lavoro, alla sua disponibilità (o meno) di denaro, alla classe sociale di appartenenza e al contesto politico economico in cui si trova a vivere le sue avventure? Tanto che anche i romanzi di fantascienza non possono fare a meno di ricreare mercati e monete immaginari nei loro mondi di fantasia. Ecco perché i grandi della letteratura sono inevitabilmente un po’ tutti anche degli economisti. Poi naturalmente ce ne sono alcuni che, più di altri, hanno ricostruito, nelle loro fatiche, un’immagine particolarmente lucida della realtà economica della loro epoca. È il caso di un vero e proprio “gigante” del teatro e della poesia di tutti i tempi: William Shakespeare.

FOTOGRAFO DEL CAMBIAMENTO

DI OPERA IN OPERA

A LEZIONE DI MANAGEMENT

SPECCHIO FEDELE DELLA REALTÀTerzo di otto figli, Shakespeare nacque a Stratford-upon-Avon, nell’Inghilterra centrale, nel 1564. Sua madre discendeva da una famiglia di possidenti, mentre suo padre apparteneva alla corporazione dei pellai e guantai del posto, posizione che gli garantì inizialmente la possibilità di sperimentare condizioni economiche agiate, anche se ben presto la situazione si fece più dissestata, probabilmente a causa di una serie di liti giudiziarie. Possiamo quindi immaginare che questa esperienza lo abbia resto particolarmente attento e brillante nel comprendere e descrivere la realtà economica e il suo influsso nella vita delle persone? Difficile dirlo. Fatto sta che nessuna delle sue eccezionali opere teatrali sfugge a un’acuta descrizione di questi aspetti. Come ha dichiarato Enrico Reggiani, professore di Letteratura inglese all’Università Cattolica di Milano, per spiegare la sua scelta di dedicare una serie di incontri proprio a Shakespeare economista: «Shakespeare è Shakespeare anche nell’ambito dei rapporti tra l’esperienza letteraria (in) inglese e l’esperienza economica: acuto osservatore delle trasformazioni del suo tempo; raffinatissimo interprete sulla scena della dialettica coeva tra terra e denaro; protagonista consapevole dei diversi ambiti d’azione dell’homo oeconomicus in quegli anni; saldamente radicato nella storia di chi lo ha preceduto; lungimirante perché capace di scrutare il cuore dell’uomo; insomma, Shakespeare».

SEPPE COMPRENDERE

L’AVVENTO DEL PROTOCAPITALISMO

ANCHE MEGLIO DEGLI STORICI

DEL SUO TEMPO

Un punto di vista condiviso da Chiara Lombardi, professoressa di Critica letteraria e letterature comparate all’Università degli Studi di Torino, che afferma: «La grandezza di Shakespeare sta nella sua capacità di rappresentare il mondo, quindi la storia, i meccanismi di affermazione del potere e, appunto, quelli economici, in modo estremamente intuitivo, riuscendo a cogliere anche aspetti che nemmeno gli storici del tempo avevano ancora messo a fuoco». Il riferimento è senz’altro alla fase di passaggio vissuta tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, anche in seguito alla scoperta dell’America e al conseguente ampliamento dei viaggi e delle relazioni economiche, di cui l’Inghilterra, insieme alla Spagna, fu grande protagonista. «Il momento in cui lui vive è un momento di trapasso, mi pare di poter dire, da un’economia più elementare a un’economia cosiddetta precapitalistica, della quale iniziano ad affacciarsi tutti i problemi», spiega Lombardi, «compresi, secondo alcuni, anche quelli di un commercio su scala globale. Shakespeare si riferisce molto al suo tempo, anche se spesso lo fa ricorrendo a vicende simboliche o parlando della storia a lui precedente». Un esempio lampante è senz’altro rappresentato da Il mercante di Venezia, una Venezia che era ai tempi il fulcro di questi scambi globali. «In quest’opera adotta i simboli economici dell’oro, dell’argento e del piombo», prosegue Lombardi, «che sono senz’altro simboli molto antichi, ma che hanno una relazione con un’importanza sempre crescente data al denaro e all’economia. Ed è significativo che il pretendente migliore, nell’opera, sia quello che sceglie il vile piombo, contraddicendo la logica protocapitalistica già circolante». Ma guai a pensare che il Bardo esprima il suo punto di vista: il messaggio non è mai unico. Shakespeare presenta e mette in discussione le diverse facce dell’economia, senza lasciar capire per chi parteggi. L’ennesimo segno della sua bravura.

NON ESPRIME CHIARAMENTE

IL SUO PUNTO DI VISTA:

PRESENTA E METTE IN DISCUSSIONE

LE DIVERSE FACCE DELL’ECONOMIA

SENZA LASCIARE COMPRENDERE

PER CHI PARTEGGI

FONTE D’ISPIRAZIONEMa la grandezza del Bardo non finisce qui. Secondo l’anglista Frederick Turner, Shakespeare è utile anche agli specialisti della materia, poiché propone di concepire «un’economia come una compagnia teatrale, un gruppo di attori, la cui interazione genera la trama dell’opera: come quest’ultima, un’economia politica è fatta da persone le cui differenze e conflitti formano una totalità artistica che è più grande della somma delle loro parti».Non a caso sono stati moltissimi i nomi illustri del settore che hanno reso omaggio al Bardo nelle loro opere. A partire da John Maynard Keynes, che lo cita continuamente nei suoi scritti. Per esempio, nel Trattato sulla moneta (1930) scrisse che l’Inghilterra, tra XVI e XVII secolo, era «effettivamente in una posizione finanziaria tale da potersi permettere Shakespeare quando egli si presentò sulla scena». Più di recente, nel 1963, un altro grande economista, ma caratterizzato da un approccio completamente diverso, Milton Friedman sembrò riecheggiare il Riccardo III – al centro del quale troviamo le conseguenze del comportamento di coloro che sono al potere – quando nella sua Storia monetaria degli Stati Uniti scrisse che «talvolta piccoli eventi possono avere grandi conseguenze». Interrogato su quale fosse il suo scrittore preferito, John Kenneth Galbraith rispose laconico «non posso che dire Shakespeare», non a caso suoi echi ricorrono numerosi nelle opere di questo economista. Persino Karl Marx e Friedrich Engels ripresero le parole del Bardo. In particolare, citarono spesso un passo dal Timone d’Atene, decisamente in linea con la loro visione: «Di quest’oro ne basta poco per far diventare il nero bianco, il brutto bello, l’ingiusto giusto, il vile nobile, il vecchio giovane, il codardo valente. Ditelo, o dei, perché è così? Questo, o dei, che è? […] Questo giallo gaglioffo imbastirà e disferà religioni, benedirà i maledetti, farà idolatrare la lebbra canuta, collocherà i ladri in posti di potere, tributandogli onori, genuflessioni, approvazioni come ai senatori sui loro scranni».Per chiudere questo elenco – inevitabilmente incompleto, perché altrimenti infinito – non si può non citare il Nobel per l’economia Amartya Sen che in Etica e economia (2000), non molti anni fa ricorse a quattro monumenti shakespeariani per classificare il rapporto tra «comportamento economico e razionalità», poiché, scrisse: «il mondo ha certamente la sua brava parte di personaggi come Amleto, Macbeth, Re Lear e Otello».

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