Roger Abravanel: “Ecco l’Italia che meritiamo”

Secondo l’economista e presidente onorario del Forum della Meritocrazia, quello che manca al nostro Paese è “l’ecosistema delle opportunità”. Non resta che stare a vedere se il governo avrà la forza e il coraggio di creare le condizioni per un vero cambiamento

L’Italia della ripresa, del Pnrr, di un indebitamento che ha sforato ogni previsione e che guarda con trepidazione alla crescita “zerovirgola” strillata da media e politica, forse dovrebbe chiedersi come è arrivata a questo punto. Al Covid-19 possono imputare al massimo gli ultimi due anni, ma giustificare gli oltre 2.700 miliardi di euro di debito rilevati a maggio 2021 da Bankitalia (+165 miliardi anno su anno) richiederebbe un vero e proprio esame di coscienza. Registriamo – secondo le stime Eurostat di aprile 2021 – la seconda peggiore performance in Europa dopo la Grecia, per il rapporto tra debito e Pil: 205,6% loro, 155,8% noi. Meglio di noi Portogallo (133,6%), Spagna (120,0%), Cipro (118,2%), Francia (116,3%) e Belgio (114,1%). E tutti, come noi, hanno dovuto aumentare la spesa pubblica per far fronte alla crisi.

Allora? C’è chi punta il dito su un vizio che è strutturale al sistema Italia, e cioè la mancata adesione ai valori della meritocrazia. Sarebbe, per esempio, il motivo per cui dall’ultima grande crisi mondiale pre-Covid, dovuta al tracollo della finanza tossica dei subprime, non siamo mai davvero usciti. Non ci siamo rimessi in piedi e non abbiamo sviluppato anticorpi adeguati per gestire la nuova emergenza. È la posizione di Roger Abravanel, economista, Director Emeritus di McKinsey, editorialista del Corriere della Sera e presidente onorario del Forum della Meritocrazia, organismo che dal 2011 si preoccupa di incentivare le buone pratiche per l’emersione e il riconoscimento dei talenti. Il suo ultimo libro, Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l’Italia, ha diviso il mondo intellettuale in plaudenti e critici, questi ultimi in nome di una possibile deriva elitistica della società, una divisione tra vincitori e perdenti che se pure apportasse vantaggi all’economia nel complesso, rappresenterebbe una sconfitta bruciante dei valori umani, di inclusività, di sostegno al debole, che pure sostengono le società civili.

La legge del più bravo vale come la legge del più forte? Immaginare di premiare il talento sarebbe come punire chi – incolpevolmente – ne è privo? Non sono quesiti di facile risposta, piuttosto andrebbero sempre tenuti presente nel dibattito economico, politico e sociale che anima questa fase della nostra storia. Meritocrazia non è un concetto statico e uguale a se stesso. Lo stesso Abravanel, che aveva già abbondantemente scritto sull’argomento (tra tutti: Meritocrazia nel 2008, Italia cresci o esci nel 2012, La ricreazione è finita nel 2015) è tornato sul concetto di meritocrazia in relazione all’aspetto più dirompente del mondo attuale, la globalizzazione, che ha cambiato necessariamente i rapporti economici interni ed esterni al Paese.

Volendo tracciare un ritratto dell’Italia di oggi, sotto il profilo delle dinamiche sociali ed economiche che la regolano, cosa è cambiato in questi anni? Ho scritto Aristocrazia 2.0 sia perché rispetto a dieci anni fa non ci sono stati grandi progressi, ma anche perché io stesso ho rivisto il concetto di meritocrazia così come l’avevo intesa. La visione che avevo sposato si basava sull’idea liberal anglosassone delle pari opportunità, che nel secolo scorso ha spostato l’attenzione dal lavoro all’istruzione. Nel 1933 ad Harvard James Conant, l’allora rettore, decise di utilizzare il test Sat (tuttora valido) per regolare l’accesso ai corsi, fino a quel momento appannaggio delle classi più abbienti, che esercitavano una sorta di diritto ereditario all’istruzione di eccellenza. Da quel momento, chi aveva le capacità ma non aveva i mezzi riceveva una borsa di studio. Dal ‘33 al ‘67 tutte le università americane hanno trasformato il loro sistema d’accesso, accettavano davvero i più bravi, non solo i più ricchi. Poi però alla fine del 900 l’economia si è trasformata da una di grandi imprese di servizio, dalle grandi banche alla consulenza, a quella che definisco knowledge economy, un’economia della conoscenza in cui conta il talento. I dieci uomini più ricchi d’America oggi sono tutti laureati negli atenei della Ivy League. Si è creato, quindi, un movimento di opinione nella sinistra anglosassone secondo cui la meritocrazia avrebbe tradito lo spirito di inclusione sociale con cui era nata. Un corso di preparazione al Sat costa 30 mila euro, non è certo accessibile a chiunque. Come risultato, un‘altissima percentuale degli ammessi agli atenei della Ivy League continua ad appartenere al ceto più abbiente. È questa corrente di pensiero che ha prodotto la letteratura contraria alla meritocrazia di Harvard. L’ultimo scritto in merito è quello di Michael Sandel, La tirannia del merito, che propone di estrarre a sorte l’accesso ad Harvard per garantire le stesse opportunità a tutti. Aristocrazia 2.0 nasce da una riflessione di tre anni per rispondere a critiche come questa. Ho capito che le pari opportunità concepite secondo gli schemi del secolo scorso sono un’utopia, e la globalizzazione stessa contribuisce alla creazione di un’aristocrazia che però è 2.0. Una classe, cioè che non si tramanda potere, ricchezze, imprese, ma che passa gli strumenti per valorizzare e far emergere il talento. Ed è un fenomeno globale. La figlia di Xi Jinping si è laureata ad Harvard, non c’è modo di fermare questo processo.

Che problemi ha l’Italia con la meritocrazia? La meritocrazia crea opportunità. Il mondo universitario italiano, che dovrebbe essere il motore delle nuove eccellenze, invece resta ancorato alle critiche di matrice anglosassone contro la meritocrazia. Ma da noi la meritocrazia non è mai nata. Dieci anni fa feci delle proposte che vennero anche accettate. Fui il primo a dire che bisognava coinvolgere più donne nei consigli di amministrazione d’impresa, il che portò alle quote rosa. Convinsi la Gelmini a introdurre l’Invalsi, tuttora in uso. Tuttavia, le donne nei board non arrivano quasi mai a posti di vero potere, e lo stesso Invalsi non entra nella valutazione delle scuole o delle borse di studio, è una meritocrazia delle carte bollate, è solo forma. Manca la spinta all’eccellenza, alla competizione sana, quella che ha portato Mancini a vincere gli Europei di calcio.

Manca la spinta o c’è un freno? Da noi manca l’ecosistema delle opportunità, che è composto di grandissime imprese o di startup dall’alto potenziale di crescita. I giovani laureati qui sono bravi, ma non trovano sbocchi e le retribuzioni sono bassissime. D’altra parte, la grande azienda non è stata incentivata negli ultimi 30 anni. Nella lista Fortune 500 20 anni fa avevamo 15 imprese, oggi solo cinque. Abbiamo davanti non solo la Germania o la Francia, ma anche l’Olanda, la Svizzera, la Svezia, la Spagna, il Brasile, la Corea, l’India. L’Italia, contrariamente a quanto si pensi, ha iniziato a impoverirsi 40 anni fa, quando lo Stato ha drogato il sistema economico con la spesa pubblica. Negli anni del miracolo economico il debito era il 30% del Pil, che in pochi anni è arrivato al 110%. Improvvisamente il sistema è crollato a metà degli anni 90 e ci siamo accorti che la nostra economia era rimasta indietro, ancorata all’impresa famigliare di piccole dimensioni, mentre il resto del mondo puntava sulle grandi imprese di servizio e poi sull’economia della conoscenza. Fiat e Montedison sono state vendute, sono sparite le opportunità per i giovani. Alla generale mancanza della domanda di talenti in Italia fa inoltre da specchio l’incapacità di produrne dei nostri atenei.

La gestione di una squadra dipende da una persona. Draghi è come Mancini? Draghi sta restituendo fiducia nel Paese, lo sta pilotando verso l’immunizzazione e ha la credibilità per gestire 200 miliardi di fondi Recovery. Ma per affrontare le sfide che ho descritto ci vogliono riforme che non ha ancora avviato. Per esempio, non può allocare i fondi straordinari per le università e la ricerca in funzione del merito, perché causerebbe la rivoluzione dei docenti universitari secondo cui le università sono tutte eguali. Potrebbe anche incentivare la nascita di un capitalismo meritocratico incentivando fondi globali e multinazionali a investire in Italia. E poi c’è la riforma della giustizia, che per essere efficace deve andare oltre soluzioni giuridiche (come la ridefinizione del processo penale o civile) e valutare e responsabilizzare i magistrati. Vedremo.

La sua è l’unica voce preoccupata nel generale entusiasmo per l’accelerazione tecnologica e digitale da Covid. Credo che sia magnifica la crescita del digitale, l’accelerazione nell’economia della conoscenza. Ma ne parlo in modo pessimistico perché il nostro sistema economico è vulnerabile a questo cambiamento. Il Covid ha cambiato tantissimo nel mondo del business. Il settore alberghiero, per esempio, ne è stravolto. E di fronte a questa crisi i piccoli chiuderanno e le grandi catene, che sono quasi tutte straniere, ne approfitteranno, avendo le economie necessarie per affrontare e gestire il cambiamento.

Come vede il nostro futuro con i fondi europei? I 200 miliardi del Recovery Fund sono i benvenuti, ma sono investimenti pubblici. Per cambiare il Paese ci vogliono investimenti privati in imprese che crescano e creino opportunità per il capitale umano italiano.

*Articolo pubblicato su Business People di novembre 2021

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