Michael Kors: l’ispirazione nasce dal caso

«Trasformare un’idea semplice, sbocciata in modo quasi banale, in capi in grado di cambiare la vita delle persone, rendendole più sicure di sé». È la missione creativa dell’istrionico stilista Usa, capace di costruire in appena dieci anni un gruppo miliardario; conquistando un posto tra i 100 uomini più influenti al mondo secondo la rivista Time

Se percorrendo in lungo e in largo il nuovo negozio di Michael Kors – un imponente flagship store di tre piani in Regent Street, il primo a vendere la nuova collezione maschile – alzando lo sguardo dalla felpa con cappuccio stile sherpa in cammello con cui vi state gingillando, vi capitasse di imbattervi in un 56enne biondo dal volto di un cherubino che assomiglia sospettosamente a Michael Kors, e che vi chiede cosa pensate dell’ispirazione sherpa, non allarmatevi. Con tutta probabilità si tratta di Michael Kors. Lo stilista è noto per passare del tempo nei suoi negozio, incontrare i clienti e chiedere le loro opinioni.

«Mi piace entrare nei negozi nei pomeriggi affollati e mettermi a osservare», dice Kors, con indosso la t-shirt nera (il suo marchio di fabbrica), pantaloni cargo e mocassini, nell’ufficio al 20esimo piano del suo elegante quartier generale, tutto bianco, che dà su Bryant Park a Manhattan. «La mia vera soddisfazione è vedere le persone che si sentono in modo diverso quando indossano il capo giusto. Improvvisamente camminano in modo diverso, hanno una postura migliore, un’attitudine differente. Non metterò fine alla guerra o alla fame nel mondo, non posso trovare la cura per il cancro, ma sono in grado di far sentire le persone in modo diverso. E quando vedo questo per strada, so di aver fatto bene il mio lavoro. E penso: “Non solo l’hai comprato, ma hai anche scelto di indossarlo questa mattina”».

È tipico di Kors, il pragmatico showman il cui dono per i capi di lusso, ma indossabili e vendibili – “quei capi di moda che sono i tuoi migliori amici, quei capi che scegli tra tanti”, come dice lui – fu testato per la prima volta quando, a 22 anni, organizzò la sua prima sfilata nella redazione del New York Magazine, trasportando in metropolitana l’intera collezione in custodie portabito di tela e utilizzando una sola modella, per presentarla al direttore moda seduta dietro la scrivania. «Era tutto un “ok, avanti un altro, avanti un altro!”. Il direttore moda era Anna Wintour, che scrisse: “Vuole che le sue collezioni siano lussuose, snelle, intercambiabili”».

Quella descrizione è ancora valida, nonostante il suo business, inizialmente per lo più un brand di abbigliamento, sia diventato un’enorme azienda internazionale, con quasi 600 negozi in tutto il mondo dove si vendono borse, scarpe, accessori, due linee di abbigliamento donna lower price e un marchio maschile. La ricchezza personale di Michael Kors lo ha fatto recentemente entrare nella lista dei milionari stilata dal magazine Forbes, e le sue apparizioni come giudice nel talent show Project Runway, nelle quali lanciava frecciatine a modaioli speranzosi («sembra una cameriera amish a un cocktail»; «è come una ballerina di flamenco a un funerale») hanno fatto crescere la sua fama. Gli capita di essere fermato per strada da teenager a caccia di selfie così come dalle loro madri che elogiano i suoi vestiti. «Mi sono capitate donne che tiravano su il cappotto per farmi vedere l’etichetta interna, persone che si sono tolte le scarpe per mostrarmele. È davvero folle».

Di persona mostra la stessa verve imperturbabile e collerica che aveva mostrato in Project Runway. «“Oh, ce ne andiamo a Milano, dobbiamo andare a vedere la collezione dei ragazzi”, racconta di aver sentito a una recente sfilata. «E tu dici “quali ragazzi?”, e loro “Dolce e Gabbana” e tu “ma sono degli ultracinquantenni!”». L’effetto non è maligno, piuttosto sembra uno zio mattacchione – ed è aiutato dalla sua faccia giovanile, dagli occhi blu e dai capelli ricci. «Non sono entrato nella moda per esprimere rabbia o angoscia», dice. «Mi diverto davvero in questo mondo. Nello show business c’è puzza di cerone. Per me, nella moda c’è il fruscio delle stoffe».

LA STORIA DI MICHAEL KORS

Quando lo incontri, ti accorgi che i due filoni dell’impero Kors – produrre abbigliamento e venderlo – sono le due facce della stessa medaglia. Una delle ragioni del suo successo come stilista, che gli ha permesso di democratizzare il lusso senza annegarlo, è che per lui la fashion experience e la shopping experience sono più o meno la stessa cosa.

Il suo primo lavoro è stato nel retail, vendere e disegnare vestiti da Lothar’s, negozio francese a Manhattan, dove ha servito Greta Garbo, Diana Ross, Rudolf Nureyev (che aveva comprato dei jeans!) e Muhammad Alì (aveva provocato un certo trambusto mentre intonava “Alì! Alì” alla folla fuori tanto che lo staff dovette bloccare le porte).

Molte sono state le notti in cui lo si poteva trovare a far festa allo Studio 54, mentre nascondeva un cambio d’abito in un borsone dietro uno speaker. Nel bel mezzo della notte poteva svignarsela in bagno, sistemarsi all’indietro i suoi capelli ricci, inforcare gli occhiali da sole e indossare la sua giacca. «Riuscire ad andare alla festa di compleanno di Bianca Jagger la sera prima di un esame di sartoria…», dice. «Sarei arrivato in ritardo, ma avevo visto quest’incredibile mix di persone. Lo Studio 54 era glamour, ma molto democratico: c’erano persone famose, studenti, teenager e 60enni. E c’era proprio questo mix interessante ed eclettico».

Crescendo nella periferia di Long Island, sua madre, un’ex modella di Revlon con un debole per gli hot pants e il pizzo, lo portava con sé a fare shopping. La aiutò a disegnare l’abito del suo secondo matrimonio quando aveva cinque anni e oggi lei è una presenza fissa in prima fila alle sue sfilate. È meno nota l’influenza che ha esercitato su di lui il nonno, un “campione olimpionico dello shopping” che lavorava nel fashion retail. «L’idea di un sabato pomeriggio divertente per mio nonno era andare dal sarto per un fitting», dice. «Quando ero piccolo mi controllava sempre le mani. Era calvo come un uovo, ma andava dal barbiere due volte a settimana. Tutto doveva essere perfetto».

Suo nonno faceva parte di un club maschile di Long Island frequentato da altre persone del settore dell’abbigliamento, che erano solite ritrovarsi al bagno turco a parlare di moda. «C’era un gruppo di uomini seduti in cerchio a parlare, così io ero al corrente di tutti questi annunci. Avevo sette o otto anni. Mio nonno diceva “non comprare mai una giacca sportiva che non si possa sbottonare sui polsi. Se i bottoni non funzionano, allora è un falso”. Ho guardato e ascoltato – e ancora lo faccio».

Molto è cambiato da quando il 12enne Kors vendeva le sue creazioni in batik, pelle intrecciata o tinte a nodi e candele in un negozio improvvisato nel seminterrato della madre, e dava inizio al suo servizio di lavanderia al campo estivo. Ha vissuto i giorni di gloria della disco music, del grunge, dell’hippie chic e del ghetto-fabulous (uno stile nato negli anni ’90 tra gli afroamericani delle aree urbane più povere, ndt). Ha vissuto la bancarotta all’inizio degli anni ’90, ha lavorato come designer nel gigante francese Lvmh; ha visto la moda diventare globale, “abbracciare” Internet ed entrare nell’era di Snapchat… «Il calendario non funziona più», dice. «La moda è cambiata. È arrivato Internet. È un mondo più veloce. Non sono i tempi in cui Yves Saint Laurent poteva collassare a Marrakech per un mese».

Molte delle massime di suo nonno reggono ancora. «Non credeva nei completi, perché troppo limitanti. Piuttosto metteva la giacca su un look informale. Credeva nella sartorialità. Fino a un certo punto sono d’accordo con lui, 45 anni dopo. Su qualcosa ci vedeva chiaramente. Mi piace una giacca destrutturata, ma deve essere sempre su misura. Quando la indossi ti sembra di avere la giacca di tuo nonno? No. Allo stesso tempo, ti rende impeccabile? Sì. Deve dare la sensazione di una t-shirt, ma avere l’aspetto di una giacca».

Secondo Kors, gli elementi che in nessun guardaroba maschile dovrebbero mancare includono gli occhiali da sole aviator («non posso immaginare nulla di più affascinante di un paio di aviator su un uomo»), il cachemire («Non potrei vedermi senza, nel weekend come sul red carpet») e jeans bianchi per tutto l’anno («alcuni dicono, “jeans bianchi in inverno?”, Io rispondo, “vedi, ti fanno sembrare ricco abbastanza da fregartene del meteo”). E bisogna essere sempre aggiornati: «Gli uomini a volte cadono nella trappola di dire: “Ho sempre indossato questi pantaloni. Sono gli unici che porto”. Beh, sai una cosa? Solo perché vorremmo proporre dei pantaloni a pieghe, non sono quelli del 1995. Quindi, devi essere aperto per capire come continuare a essere moderno». È così che ha mantenuto vivo il suo interesse, anche se il brand è cresciuto. «La parte migliore è quando vedo realizzarsi qualcosa iniziato come un barlume di idea – può essere la più sciocca e piccola cosa. Una volta eravamo in Italia e vidi una donna che, mentre scendeva da una barca, stava sollevando il vestito perché aveva paura di bagnarlo, ma non riusciva a reggerlo, quindi lo ha annodato da un lato. Mi sono innamorato del modo in cui ha legato il vestito. Sette mesi più tardi inserimmo qualcosa di annodato sul lato nella nostra collezione resort (pre-collezioni che prendono spunto dalle vacanze fuori stagione e hanno molto successo a New York, ndt). Così, quel barlume di idea è diventato realtà e poi è entrato nel guardaroba di qualcuno. Poi, la cosa che preferisco è sentirmi dire, “sai, dieci anni dopo indosso ancora quel capo”. Amo questo. Che sia parte della loro vita».

* © The Telegraph/The Interview People (traduzione di Eliana Corti ed Emidia Melideo)

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