L’imprenditore ragazzino

Parla Antonio Civita: a 39 anni ha comprato la catena “Panino giusto” che ora vuole trasformare in un “classico” del made in Italy esportandolo in tutto il mondo. “Sono partito dal niente, e a 19 anni ero già in affari. Ecco come ho fatto”

Trentanove anni, figlio di un professore di matematica e di una casalinga di origini napoletane, Antonio Civita è un integralista dell’imprenditoria: «Ho sempre pensato che per autorizzare le persone a fare questo mestiere occorrerebbe una sorta di patentino: l’imprenditore vero deve avere caratteristiche uniche e speciali». Di sé ama ripetere: «sono posseduto da un demone buono, un satiro che mi trasmette una fame continua: fame di inventare, allargare, migliorare, condividere». Un businessman che pone un muro mentale invalicabile tra imprenditoria e speculazione, figure antitetiche che nel sentire comune hanno pericolosamente cominciato a coincidere: «Può sembrare paradossale, ma sono convinto che un imprenditore non debba essere troppo attaccato ai soldi» teorizza, supportato da continue letture di filosofia d’impresa, self building e motivazione, «e anche se ne guadagna tanti, deve stare attento a non premiarsi oltre misura. Se cala la fame, cala anche la voglia».Terzo di quattro fratelli, Civita è cresciuto a Roma nella borgata Massimina col sogno di diventare un calciatore di serie A. Lo chiamavano “il Gianluigi Lentini dell’Eccellenza” gli osservatori di B e C che cominciavano a ronzargli intorno per il grande salto. Finché una testa «un po’ anarchica e poco avvezza a rispettare le gerarchie» mette fine ai sogni pallonari per trasferire nell’economia la sua passione agonistica: «Ho cominciato aiutando mio cognato, elettricista. Dopo pochi mesi avevo già aperto il mio primo negozio di forniture elettriche. A 22, avevo messo in piedi una piccola catena battezzata Elettroged». Nel 2003 incontra Elena e si trasferisce a Milano. Qui, in poco tempo mette in piedi una catena di focaccerie piazzandole nei migliori centri commerciali d’Italia.Ma qualcosa in quell’avventura lo lascia insoddisfatto. Dalla casa di via Malpighi dove si è trasferito insieme alla moglie vede tutti i giorni le vetrine di Panino Giusto, marchio storico e di culto della ristorazione veloce e di qualità. «Mi colpiva molto osservare tutti quegli uomini d’affari, con la fretta tipica di chi deve consumare un pasto veloce incastrato tra un appuntamento e l’altro, aspettare pazientemente in coda all’ora di pranzo. Finanzieri mischiati con giovani coppie, liceali, universitari, famiglie. Intuivo che lì dentro si era messa in moto una chimica particolare». Chiede un appuntamento col titolare e in sei mesi di trattative serrate riesce a ottenere la licenza per sviluppare il marchio Panino Giusto nei centri commerciali. «Solo che noi ci siamo rivelati più snelli e ambiziosi, e in poco più di cinque anni fatturavamo più della casa madre: 12 milioni noi, 7 loro».A quel punto era naturale compiere il grande salto: comprare il marchio. E infatti… In agosto Antonio Civita ha firmato il contratto che gli attribuisce la proprietà di decine di locali nel mondo, da Milano a Istanbul passando per Tokyo e Barcellona che hanno un giro d’affari di 30 milioni di euro. E oggi spiega che cosa vuole farne: «Il panino di qualità è un eccellenza italiana, e dovrà diventare un must nel mondo esattamente come la pizza e la pasta. E questo noi lo faremo, alla media di almeno otto aperture all’anno dal 2011. Ma la qualità del nostro prodotto è altissima: pur arrivando ovunque, non potremo mai diventare McDonald’s, senza tradire la nostra identità».

Ragazzo Prodigio

19 anni Antonio Civita lavora come elettricista, in 3 anni ha una catena di forniture elettriche

35 anni ottiene la licenza per portare Panino Giusto nei centri commerciali

32 anni apre una catena di focaccerie

39 anni rileva il marchio Panino Giusto per circa 20 milioni, punta a 8 aperture l’anno dal 2011

Una bella storia, niente da dire. Ma a me pare che lei abbia un concetto tutto suo di imprenditore. O no?«Per me l’imprenditore è l’operatore economico con la più alta responsabilità sociale. È colui che ha deciso di assumersi una serie di impegni che non può mancare, altrimenti crolla tutto e mette nei guai fornitori, clienti, dipendenti, banche, fisco. Se salta lui, salta un sistema».

La storia del patentino ce la spiega meglio?«Semplicemente sono convinto che non tutti siano adatti a fare impresa. Ci vogliono caratteristiche precise».

Quali?«Leadership, prima di tutto. Lungimiranza, nel senso che bisogna darsi tempo e considerare ogni successo come un passaggio, e non un fine. E poi un’altissima capacità di gestire lo stress: quando arrivano i momenti duri devi essere in grado di non prendertela con il mondo, ma di reincanalare la tensione sotto forma di input positivi, rimettendola in circolo a vantaggio dei collaboratori».

Un impegno che potrebbe scoraggiare un giovane a prendere questa strada.«Diciamo che tutto questo ha il suo prezzo. Per esempio, io normalmente alle nove e mezza di sera sono a letto».

Se il motore del lavoro non è il denaro, allora qual è?«Credo che qualsiasi imprenditore le risponderebbe così: la voglia di sconfiggere la finitezza delle cose. Arrivare a 70 anni e dire: oh, della vita non c’ho capito niente, ma ho fatto con le mie mani qualcosa che ha un senso. Un esempio banale: quando firmo le 300 distinte di stipendio dei miei collaboratori, io godo».

Come è stato cominciare a fare impresa a 19 anni?«Senza soldi è dura, ma entusiasmante. Per farcela, occorre non avere paura di niente: dei debiti, degli accertamenti, delle porte in faccia. Ricordo la prima volta che sono andato in banca per un prestito: avevo appena terminato un’istallazione di materiali elettrici e avrei dovuto attendere i tre mesi per il pagamento. Invece mi sono presentato presso la banca del mio cliente e ho chiesto di averli subito. Un milione di lire in regime di credito mercantile alla Banca di Roma, non me lo dimenticherò mai. Dopo tre giorni li ho avuti e subito rimessi in circolo per comprare attrezzature. Ecco, l’imprenditore fa questo».

Si ricorda la prima volta che ha visto il segno “più” sulla sua programmazione finanziaria?«Sì, è successo a 29 anni. Avevo appena finito di pagare le cambiali dei punti vendita romani: un miliardo di lire. E devo dire che è stato strano: avevo finito di pagare i debiti e mi sentivo come un soldato senza più una battaglia da combattere. Però poi riparti, per nuove avventure».

I suoi colleghi imprenditori si lamentano delle banche che non danno credito alle imprese. Lei cosa e pensa?«La mia esperienza è positiva sotto ogni aspetto. Certo, è un rapporto che va costruito. Mi ricordo di aver comprato la prima casa a 20 anni, pur non avendo una lira, solo per far vedere agli istituti di credito che avevo una solidità patrimoniale. L’importante è farsi redigere da un professionista un business plan preciso e sostenibile, dimostrare di avere controllo sui propri flussi finanziari, e non apparire mai in emergenza. Ma soprattutto, rispettare sempre la parola. Io ho trovato un partner insostituibile nell’Unicredit. Ma l’Italia è piena di gente con grandi patrimoni in cerca di un modo valido per essere investiti».

Panino Giusto quanto l’ha pagato?«Poco meno di 20 milioni. Che è una buona cifra per ciò che è oggi, ma non è nulla per quel che sarà un giorno».

Quali sono i piani di sviluppo?«Il presupposto è che la ristorazione veloce e di qualità è un’esigenza crescente dei paesi che vivono sul modello occidentale. Quindi continueremo le aperture in Italia, Germania, Spagna, Francia e Usa. Ma è naturale puntare anche alla Russia e all’Asia».

Davvero vuole creare un’accademia del panino?«Partirà in primavera e sarà una scuola dove formare tutte le figure chiave di Panino Giusto a Milano. Dal direttore di locale all’addetto ai panini. Una struttura derivata dal recupero di uno spazio ex industriale, in via Pompeo Leoni. Ci saranno laboratori, aule e appartamenti per gli studenti fuori sede. Vogliamo formarne cento l’anno».

Un’ultima massima ce l’ha?«L’imprenditore è come il pescatore: ti racconta solo quando prende. I fallimenti, mai».

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