Gli allenamenti non finiscono mai

Una carriera giocata dentro e fuori dal campo, attraverso gli anni d’oro del calcio italiano e l’era dei grandi scandali, visti da un punto di osservazione privilegiato: gli studi di Sky e il mondo del fairplay britannico. Il prossimo obiettivo? Un ruolo dirigenziale. «Dove, non importa. Basta che sia io quello che esonera gli allenatori...»

Si è disintossicato. Ha raggiunto un suo equilibrio, Gianluca Vialli. Non che l’abbia mai perso, in realtà. Ma sembra proprio che tra Londra («una città che vive nel rispetto delle regole, con un Dna forte che ti contagia, riuscendo comunque ad accoglierti») e la professione di commentatore sportivo per Sky («ha inventato un modo nuovo di raccontare il calcio») abbia trovato la quadratura del cerchio dopo una carriera piena di soddisfazioni e qualche amarezza, provata soprattutto quando da giocatore si è trasformato in allenatore. Ora quel che gli fa storcere la bocca sono più che altro le disavventure e gli scandali del calcio italiano, rispetto ai quali il grande campione cremonese non risparmia nessuno, dagli arbitri ai dirigenti passando per i singoli giocatori. «I calciatori di oggi sono come piccole aziende, dei veri e propri brand», spiega a Business People, «e per gestirli bisogna entrare nella loro testa, indirizzarli, farli lavorare per obiettivi, alzando sempre di più l’asticella». Per il momento Vialli non pensa a tornare in panchina, anche se ha firmato un videogioco, Lords of football (realizzato dalla software house italiana Geniaware), che permette di capire cosa significa gestire la vita sportiva e privata degli individui che compongono una squadra. A noi l’ha raccontato di persona e ne ha approfittato anche per togliersi qualche sassolino dalla scarpa.

Dalla Samp al Chelsea, dal campo alla panchina fino ad arrivare agli studi televisivi. Cosa ha guidato le sue scelte in tutti questi anni di calcio vissuti in così tanti ruoli diversi?

Credo di potermi definire una persona che non lavora d’istinto. Sono sempre riflessivo e razionale, prima di scegliere pondero ogni aspetto, ragiono col cervello, poi elaboro col cuore e infine decido con la pancia. Magari finora è sempre stato culo, ma non mi sono mai pentito di questo sistema, mi è andata bene ogni volta.

Anche quella di diventare un calciatore professionista è stata una decisione così ben ponderata?

Ci sono alcune persone che capiscono presto cosa devono fare nella vita. Io a tre anni ho dato un calcio a un pallone e ho capito che avrei giocato a calcio. Sono d’accordo con chi pensa che ci voglia una predisposizione fisica e mentale per questo sport, ma personalmente credo più nella pratica continua. Alla mia epoca non c’era la Playstation e la Tv aveva solo due canali: questa è stata una fortuna per me, perché non facendo altro che giocare ho affinato le mie qualità. L’altra grande fortuna è stata quella di nascere a Cremona, dove c’era una squadra che militava nei campionati maggiori e che offriva grandi opportunità per gli juniores. Così non ho abbandonato la famiglia, sono rimasto a casa fino a vent’anni, quando poi è arrivata la chiamata della Samp a cui ho risposto con entusiasmo. «Ma quelli del Cremona vanno alla Juventus», mi sentivo dire. Però all’epoca sapevo di non essere pronto per la Juve, mentre la Sampdoria rappresentava per me un ambiente ideale, anzi la progressione ideale in quella fase della mia carriera. Senza contare che una volta entrato in contatto con la società, me ne sono letteralmente innamorato.

Nel gergo del business si dice che in alcune aziende tira una buona aria. Cos’è che fa dire a un giocatore che in un club tira una buona aria?

Innanzitutto gli obiettivi personali e quelli della società devono essere condivisi: tornando al mio caso, in quel momento sia la Samp che io avevamo bisogno di crescere. Servono poi le strutture adatte, un allenatore e un ambiente che si adattino alla tua mentalità e personalità. La società deve metterti nelle condizioni di fare al meglio il tuo lavoro, anche attraverso le facility. Ma alla fine interviene la chimica, quel senso di appartenenza che ti fa stravedere per la maglia: e l’ingaggio non è più solo lavoro, diventa una passione. È stato questo insieme di cose a farmi rimanere per otto anni a Genova. Ho avuto diverse possibilità di cambiare squadra, le chiamate non mancavano. Ma ero convinto di dover completare un percorso insieme alla società, e non ne ho voluto sapere.

A 28 anni arriva però la chiamata della Juve…

Ho accettato di trasferirmi a Torino perché era finito un ciclo. La Juve aveva 11 milioni di tifosi, un forte desiderio di tornare a vincere e l’obiettivo della Champions: era una nuova sfida al momento giusto della mia carriera. Quando poi, dopo quattro anni, la società mi fece capire di togliere il disturbo, decisi che non avrei più giocato con una squadra italiana.

E si è trasferito a Londra.

Cercavo un ambiente diverso e Londra, col suo Dna che ti contagia pur accogliendoti, era una città a cui mi sentivo già molto legato, per molti aspetti vicina alla mia filosofia di vita, che da sportivo professionista è improntata al rispetto, soprattutto delle regole. Ho conosciuto la città grazie al mio amico e collega David Platt, che all’epoca era titolare nella Nazionale inglese. Rimasi estremamente colpito dal fatto che passeggiando con lui in pieno centro nessuno l’avesse fermato per una foto o un autografo. In Italia, invece, era una situazione che cominciava a infastidirmi. Senza contare che in Gran Bretagna si vive un calcio sereno, non strangolato dalla politica. Ma la cosa forse più importante è l’atmosfera che si respira nel mondo agonistico, senza distinzioni di sorta dal calcio al cricket. Penso alle grandi manifestazioni come Wimbledon, il Grand Prix di Silverstone, la stessa Premier League: ogni torneo in Gran Bretagna diventa un grande evento, lo trattano con estrema cura, in primo luogo perché gli inglesi credono nelle proprie tradizioni.

In altre parole, lo sport, anche dal punto di vista organizzativo ed economico, come dovrebbe essere…

Dipende dai gusti, ma a me piace così.

Al Chelsea le hanno chiesto di ricoprire il doppio ruolo di giocatore e allenatore. Come ha vissuto questa ulteriore sfida?

L’allenatore era Gullit, ma c’erano problemi per il rinnovo del contratto. La dirigenza della società aveva ventilato l’ipotesi di assegnare a me il suo posto, ma si sarebbe trattato eventualmente di un passaggio a fine stagione. Invece le cose con Ruud precipitarono e a febbraio, da un giorno all’altro, mi proposero l’incarico. Io ne avevo parlato con Marcello Lippi. Gli avevo chiesto se secondo lui avevo le qualità per allenare. E lui mi ha risposto «Vai tranquillo». Così ho accettato.

Quali qualità servono per stare in panchina?

Tanto per cominciare occorrono conoscenze tecniche, tattiche e fisiche. Ma questo lo si impara a Coverciano: il calcio, anche se non tutti la pensano così, è una scienza non troppo complicata. La differenza la fa la gestione delle risorse umane. Oggi i giocatori sono piccole aziende, ognuno di loro è un vero e proprio brand. E secondo me è difficile continua-re a parlare di sport di squadra al grido di “Uno per tutti e tutti per uno”. L’aspetto psicologico, l’attenzione alle problematiche di individui che sono ancora giovani uomini, e per questo immaturi, la capacità di entrare nelle loro teste e gestirli. Sono questi i fattori critici di successo per riuscire ad allenare bene.

A vederlo da fuori, pare che il fenomeno dei calciatori capricciosi e viziati come superstar abbia avuto un’accelerazione incredibile. Da dentro si assiste allo stesso spettacolo?

Assolutamente sì. Ma bisogna capire che questi ragazzi sono compressi tra sponsor, agenti, fidanzate, tifosi, genitori, e in mezzo a questo vortice di energie diverse si fa fatica a mantenere il focus sull’obiettivo. È compito dell’allenatore riuscire a farli sentire parte integrante di un gruppo.

Come si fa a indirizzare un team verso un obiettivo condiviso?

Dando l’esempio. L’allenatore è quello che analizza il potenziale del gruppo e condivide con la società un obiettivo realizzabile, spiegando poi metodi, sistemi, strategie e pratiche alla squadra. Dopodiché, alza un po’ l’asticella. Perché altrimenti non c’è gusto, diventa troppo semplice. Tanto la parte più difficile del lavoro sta nelle sfide quotidiane, nel superamento (o nell’aggiramento) degli ostacoli inaspettati che si presentano di volta in volta. Posso dire comunque che il 70% delle difficoltà sono superate se si scelgono i giocatori giusti durante l’estate.

A partire dai giocatori, in che modo si crea l’alchimia? Come si trasforma un gruppo in un organismo?

È un lavoro che va fatto a priori, attraverso la pianificazione. La squadra va stabilita, giocatore per giocatore, in base agli obiettivi da raggiungere cercando la quadratura del cerchio tra ruoli, qualità, attitudini e costi, naturalmente. Raccolte e organizzate queste esigenze, poi a cercare gli elementi ci pensano gli scout. E lì si valutano aspetti ancora più sensibili. Il ragazzo si impegna in allenamento come in partita? Quando la squadra perde quattro a zero, si arrende o continua a lottare fino all’ultimo? Nel momento in cui si preparano le selezioni, sai già che dei dieci che hai scelto, cinque non andranno bene. Anzi, essere riuscito a trovarne cinque che funzionano va considerato un successo.

Ha gestito anche se stesso come una piccola azienda? Oppure si è fatto aiutare da un procuratore?

Ho condotto le trattative in prima persona, sempre. Al massimo mi sono consigliato con mio padre o con persone a cui ho attribuito la capacità di consigliarmi. Alla Samp, poi, con Mantovani, non c’era bisogno di un procuratore. Andavi nel suo ufficio per chiedere dieci e lui ti dava 12. Era un piacere avere questo rapporto diretto. E la stessa cosa è capitata a Torino. Solo dopo la Juve ho lavorato con un procuratore e questa, ci tengo a dirlo, è una decisione che rimpiango. Oggi però mi rendo conto che per un atleta professionista la figura del procuratore è necessaria, così come ci vuole qualcuno che ti aiuti nella comunicazione. Anche in quell’ambito, ho sempre fatto di testa mia, pur ammettendo che se avessi avuto qualcuno al mio fianco avrei potuto fare meglio, evitando un po’ di ingenuità.

Quando si è accorto di essere diventato un marchio, che cosa è cambiato nel suo modo di rapportarsi alla professione e ai suoi interlocutori?

Ho continuato a fare di testa mia. Sono certo che si commettono meno errori se si ha una squadra alle spalle, ma poi la comunicazione rischia di diventare artefatta. Ho preferito accettare l’idea di poter sbagliare, di essere considerato umano. E ho sperimentato che arrivano comunque apprezzamenti, perché può capitare di dire una sciocchezza, ma la gente capisce che parli col cuore e non sei gestito come un burattino.

Tra i suoi colleghi ci sono dei burattini?

Le cose sono cambiate molto negli ultimi anni. Avere il controllo della propria vita è un privilegio da mantenere, ma al tempo stesso è importante ricevere l’assistenza di un professionista. Ci sono troppe cose politically correct e non, nel mondo agonistico di oggi. Bisogna stare attenti.

LE PASSIONI DI GIANLUCA VIALLI

IL CIBONutrirmi per me è una necessità, non ho mai peccato di gola. Ho sempre mangiato pasta e riso in bianco e petto di pollo.

IL LUOGOIl Sudafrica. Mia moglie è sudafricana, e d’inverno abbiamo la fortuna di passare un periodo nell’altro emisfero. Adoro quel Paese.

I MOTORIMi piacciono le auto, ma ne posso fare a meno. Certo, mi sono tolto le mie soddisfazioni, ma ora sono un family man e mi sposto con Jeep e Suv. Non ho più l’età per le sportive

LA TECNOLOGIACerco di tenermi sempre aggiornato tra smartphone e tablet, rigorosamente Apple. Per principio dovrebbero essere strumenti che semplificano la vita, ma ogni tanto ne divento un po’ schiavo

IL CINEMAAmo tutto ciò in cui si percepisce il talento, ciò che fa trasparire la voglia che una persona ha di esprimersi. Sono un fan di Sorrentino, ma recentemente ho apprezzato anche Matt Damon e Michael Douglas in Behind the candelabra: due attori veramente straordinari e versatili

Lei ora è commentatore per Sky. Era un altro step previsto nella sua evoluzione professionale?

Assolutamente no. Finito di lavorare al Chelsea, sono passato al Watford, che mi ha esonerato dopo un anno. Con la società c’è stata una disputa legale, e sono rimasto lì testardamente a cercare di far valere i miei diritti. Stavo per perdere l’entusiasmo, quando arrivò la chiamata da Sky. In Inghilterra conoscevo BSkyB e adoravo il modo in cui il network trattava il calcio, ero convinto che lo rendesse uno sport migliore. Così, quando Tom Mockridge mi chiese se volevo far parte della sua squadra, dissi subito di sì. Ha pesato anche il fatto che nel frattempo ero diventato consapevole di poter vivere una vita felice anche senza pensare al calcio 24 ore al giorno. In un certo senso, ero riuscito a disintossicarmi. Anche perché non sempre mi è piaciuto il tipo di persona in cui mi trasformava l’attività di allenatore. A volte gestire lo stress in quelle situazioni non è affatto semplice. In Sky ho trovato una nuova sfida, anzi una missione: parlare di calcio al pubblico italiano in modo diverso. E poi, ancora una volta, è finita che mi sono innamorato dell’azienda. C’è un altro aspetto che mi piace di questo lavoro: lo dico sottovoce, ma essere pagati per guardare delle partite di calcio non è affatto male.

In questa nuova veste vede più cose? Che idea si è fatto della situazione del calcio italiano?

Tutti questi scandali, da Calciopoli al calcio-scommesse, mi fanno semplicemente sentire a disagio. È il problema della nostra realtà. Abbiamo tra le mani una cosa meravigliosa ma fragilissima, e dovremmo trattarla con più cura.

Chi dovrebbe trattarla con più cura?

Tutti. Perché una volta sono gli arbitri, un’altra i giocatori, poi ci si mettono i dirigenti. E non possiamo dimenticare i tifosi sugli spalti. Il calcio è un prodotto su cui dovremmo lavorare tutti insieme, ma continuiamo a palleggiarci le responsabilità. In questo modo diventa inevitabile rimanere coinvolti in situazioni inaccettabili.

Secondo lei, è possibile tornare agli antichi splendori facendo funzionare l’economia calcistica, potenziando promozione e organizzazione e magari prendendo a prestito nuovi modelli di business dalle altre federazioni europee?

Io sono convinto che se avessimo stadi nuovi e più sicuri (luoghi in cui la gente percepisca di non essere in un’arena ma in una sorta di teatro), se i giocatori vendessero meno partite, se i dirigenti pensassero meno al ritorno immediato ma agissero come degli statisti per ottenere risultati nel medio-lungo termine, e se vincere non fosse un sollievo, ma una gioia, molti campioni stranieri tornerebbero da noi. E tutto il sistema calcio italiano diverrebbe più appetibile per sponsor e broadcaster esteri.

Ma è possibile o solo un “se fosse”?

Voglio continuare a essere ottimista. Ma ogni anno ce n’è una: ora c’è il problema fiscale. Sembra quasi che lascino finire il campionato per poi innescare un nuovo scandalo estivo. Certo, noi italiani rendiamo meglio quando partiamo sfavoriti, quando giochiamo contro. Ma qui stiamo esagerando: a questo punto dovremmo vincere i Mondiali tutti gli anni! Serve più rigore morale, disciplina, serve che ognuno faccia la sua parte. È difficile vivere a Londra e poter parlare con orgoglio del calcio italiano. Non so rispondere alla sua domanda, onestamente. Penso ci vorrebbe un po’ più di “ingenuità”, bisognerebbe tornare a guardare il calcio con gli occhi di quando eravamo bambini.

Parliamo della Fondazione Vialli e Mauro per la ricerca e lo sport, che tipo di attività svolgete?

L’abbiamo creata nel 2004 con Massimo Mauro e Cristina Grande Stevens perché ritenevamo doveroso fare qualcosa per restituire un po’ della fortuna che abbiamo ricevuto. Consiglio la beneficenza a tutti: fa stare bene gli altri, ma fa stare bene anche chi la fa. E poi, come l’abbiamo studiata noi, diventa anche divertente.

Come?

Trasformiamo gli eventi a cui partecipiamo in meccanismi di raccolta fondi. Cerchiamo di essere il meno prevedibili possibile, organizzando iniziative e attività che abbiano dove possibile anche una finalità culturale. A settembre, per esempio, è prevista una Pro am golfistica: al club Roveri di Torino si incontreranno professionisti e amatori (celebrities supporter della fondazione) per una gara e una serata all’insegna della ricerca sulla Sla. In dieci anni di lavoro siamo riusciti a raccogliere 2,5 milioni di euro, comincia a essere una cifra importante. È un po’ come avere un business, solo che i soldi li fai per donarli. L’unico problema è che a volte ti confronti con persone che fanno altri tipi di business e devi spiegare loro che si tratta solo di beneficenza.

Che cosa c’è nel suo futuro?

Sono felice di continuare a lavorare in Sky. E la nostra fondazione dovrà andare avanti finché vivrò. Potrei ritornare nel mondo del calcio, ma in un ruolo diverso. Dirigenziale.

In Italia?

Non mi pongo dei limiti. L’importante è che questa volta sia io quello che ha la facoltà di licenziare un allenatore!

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