Professioni dell’accoglienza

Luoghi d’incanto, camere da sogno, lusso a profusione. Ma la peculiarità della grande hotellerie italiana rimane il servizio d’alto livello, che solo un personale ispirato dalla passione per il proprio lavoro può offrire. I direttori di quattro dei più rinomati alberghi della Penisola raccontano i segreti del loro management

L’arte dell’ospitalità è tutto fuorché ferrea disciplina. Anzi, la capacità di accogliere, insieme con gli ospiti, i loro desideri, le loro aspirazioni e i loro bisogni è frutto di esperienze, di scuole, di storie umane e professionali spesso molto diverse tra loro. E se la ricerca della differenziazione e della personalizzazione del trattamento dei visitatori, da dimora a dimora, è un atout tutto italiano, il comune denominatore dei top manager alberghieri della Penisola è senza dubbio la passione. Un elemento imprescindibile, quando si tengono in mano le redini di una grande struttura che prima ancora di un sogno deve essere per chi vi soggiorna un luogo che dia la sensazione di ritrovarsi a casa. Al di là della bellezza dei contesti in cui sono immersi gli alberghi di prestigio, tralasciando il lusso e l’esclusività degli ambienti e dei trattamenti offerti, ciò che fa davvero la differenza è il servizio. Nelle parole dei direttori degli hotel più blasonati del Belpaese servizio è sinonimo di vicinanza e conoscenza profonda dell’ospite, il che significa dargli ciò che vuole nel totale rispetto della sua privacy e delle sue abitudini.La filosofia dell’ospitalitàIl tipo di gestione di un hotel cambia innanzitutto a partire dal tipo di visitatori per il quale è concepito. Ezio Indiani, dal 2005 general manager di uno degli alberghi icone di Milano, il Principe di Savoia, dichiara con orgoglio che il 28% delle persone che riceve ogni settimana nella propria struttura sono frequentatori abituali. «Ci sono addirittura persone che vivono a tempo pieno nell’albergo. Per questo, i nostri ospiti si aspettano non solo di ricevere tutte le attenzioni del caso, ma anche di essere riconosciuti, chiamati per nome, di ritrovare ogni volta la classicità del posto, pur avendo l’opportunità di vedere qualcosa di nuovo». Rispetto alla gestione del Principe, la parola d’ordine di Indiani, che ha ricevuto il Premio Excellent come “Manager alberghiero internazionale che ha saputo trasmettere il brand Italia nel mondo”, è innovazione nella tradizione: dalla boiserie ai vasi, passando per le tende e la tecnologia rigorosamente celata nell’arredo di stampo classico lombardo che contraddistingue ogni camera, tutto deve cambiare, «diventare più bello», precisa il direttore, senza incrinare lo stile elegante ma sobrio dell’hotel. A Milano, è quasi scontato dirlo, la fa da padrone l’uomo d’affari. «Il 75% degli ospiti del Principe di Savoia sono manager legati al mondo della finanza, del bancario e delle assicurazioni. Cosa li spinge a sceglierci e a tornare da noi? È inutile investire milioni di euro in restyling e creazione di nuove strutture se il servizio non incontra i desiderata degli ospiti, che vanno conosciuti e riconosciuti nelle loro abitudini e nei loro gusti. Dalle preferenze per la prima colazione al tipo di biancheria e di cuscini che prediligono per la notte. Particolari che possiamo curare solo grazie alla professionalità del nostro personale. Al Principe lavorano 440 persone. Sono loro che creano valore, personalizzando il loro rapporto con gli ospiti. Ma sono per me anche una grande famiglia, visto che io stesso vivo in albergo».La dimora che proprio pochi giorni fa è stata premiata da Forbes come miglior hotel del mondo, il Villa d’Este di Cernobbio (un’incantevole tenuta del ‘500 adagiata sulla sponda occidentale del lago di Como), ha il suo bel da fare per andare incontro alle esigenze degli ospiti del XXI secolo, mantenendo intatta la struttura originale di un edificio che dal 1904 è posto sotto la severissima tutela della Sovrintendenza ai Beni culturali. «Basti pensare che quando si tratta di ampliare o creare nuovi spazi nel giardino della villa, in certi casi conviene proporre alla Sovrintendenza progetti concepiti nei secoli scorsi», spiega Jean-Marc Droulers, amministratore delegato di Villa d’Este. «Questo è un luogo di storia e isolamento, uno spazio fuori dal tempo, quasi una nave. Chi viene qui cerca ozio e contemplazione, vuole godersi una tranquillità che è in antitesi con i ritmi dei giorni nostri. È questo, oggi, il vero lusso». Gli ospiti del Villa d’Este non sono nella maggior parte dei casi clienti abituali. Meno del 10% torna ogni stagione per godersi le atmosfere placide del lago e la relativa vicinanza alle boutique di Milano, ma il 90% dei visitatori è già stato nella dimora almeno un’altra volta negli ultimi dieci anni. «Al di là dell’ambientazione suntuosa», rilancia Droulers, «io direi che il pilastro della nostra offerta sta nel servizio. La gente non è disposta a spendere tanti soldi per dormire in un posto solo perché è bello. I nostri ospiti si aspettano che sappiamo prevedere i loro desideri, prestare attenzione ai dettagli, lasciando fuori dall’hotel i malumori per assisterli sempre con il sorriso. È un teatro, e noi siamo fieri di esserne il retroscena».Altro connubio di spettacolarità nell’ubicazione e di eccellenza nel servizio offerto, il San Pietro di Positano è un hotel letteralmente sospeso sulle rocce che si gettano a strapiombo nel mare della Costiera amalfitana. Il direttore, Vito Cinque, rappresenta la terza generazione di un’impresa che ha sempre avuto carattere familiare. «Fu mio zio Carlino Cinque a cominciare aprendo nel 1936 il Miramare, un albergo nel cuore di Positano, che tuttora esiste. Durante la Seconda Guerra mondiale il generale Desmond Smith, comandante delle forze alleate nel Sud Italia requisì la struttura, questo perché Positano era stata scelta come posto di ristoro degli ufficiali americani, canadesi e inglesi. Ufficiali che sono tornati anche dopo il conflitto, portando con sé le proprie famiglie. Così è iniziata una tradizione di accoglienza che è arrivata oggi a ricevere la terza generazione di quei primi ospiti». Lusso offerto con semplicità è il motto del San Pietro, fondato nel 1970 sulla scia del successo degli altri alberghi della famiglia Cinque. «In un mondo in cui tanti hotel vivono solo di immagine proiettata all’esterno, noi cerchiamo di dare sicurezza e garanzia dei servizi e dell’unicità dei luoghi, senza sorprese», conferma Vito Cinque. «Offriamo tutto il lusso che possiamo senza mai essere pretenziosi. Il che significa coccolare il cliente dandogli ciò che lui vuole, non ciò che noi vogliamo dargli!».Per Amedeo Ottaviani, proprietario e managing director del Lord Byron di Roma e del Regency a Firenze, invece, l’immagine è fondamentale. «Soprattutto nel creare il desiderio che determina l’impulso a scegliere un albergo», conferma Ottaviani. «Nel mercato turistico, infatti, l’acquisto, ovvero la prenotazione, non è fatto sul prodotto reale, ma su quello che l’immagine fa percepire». Il Lord Byron è situato all’ingresso di Villa Borghese, nel centro di Roma, ha ospitato con la discrezione delle sue 32 camere grandi personalità soprattutto del mondo dello spettacolo, preservandone la privacy. «Nei miei alberghi c’è più profumo di qualità, che non di ostentazione. È una dimora per persone che vogliono vivere bene senza avere il flash dei fotografi all’uscio dell’hotel. Non mi piace fare della notorietà dei miei ospiti un mezzo per promuovere il mio albergo», dice Ottaviani. «Io sono un convinto tutore dei miei clienti: dei loro diritti, tra i quali ci sono il comfort, l’attenzione e il servizio, così come della loro vita privata». Come accogliere la crisi? Anche rispetto alla flessione delle prenotazioni dovuta all’infiammarsi della grande crisi internazionale, i direttori degli hotel di lusso hanno elaborato strategie difensive assai differenti. Ezio Indiani, che ha dovuto fronteggiare un calo delle presenze pari al 20% alla fine del 2008, non ha arretrato di un passo. «Abbiamo alle spalle una grande compagnia, la Dorchester collection, che nonostante la crisi continua a pianificare investimenti creando valore per il futuro. Dal canto nostro siamo riusciti a contrastare la diminuzione delle prenotazioni potenziando ulteriormente il servizio, arrivando a contenere le perdite nell’ordine del 7-8% nel mese di maggio e a ridurle ancora al 5% a giugno. Dal punto di vista tattico, abbiamo approfittato del calo fisiologico di ospiti per anticipare alcune opere di ristrutturazione che erano previste più in là, aumentando gli investimenti (fino a 40 milioni di euro, ndr) per ridurre i tempi di realizzazione da 36 a 26 mesi».Jean-Marc Droulers di Villa d’Este aspetta placido come le acque del lago su cui affaccia il suo ufficio che si metta in moto la ripresa, prevista per il 2011. Del resto, Droulers ricorda bene le conseguenze della crisi del ’73. «Più la fascia è alta, più consistente è la diminuzione, è sempre stato così. Ma non bisogna abbassare la guardia. Anzi, se i clienti sono meno numerosi (tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 si è registrata una flessione del 20%, ndr), bisogna occuparsene di più e meglio! Il problema vero è che questa è la prima crisi che non ha valenza solo economica, valutaria e politica: c’è un sentimento psicologico. Ora come ora è semplicemente fuori luogo acquistare beni e servizi di lusso».Meno pesanti sono invece stati i danni per il San Pietro di Positano, dove Vito Cinque ha riscontrato un calo dell’afflusso turistico limitato al 5% nella bassa stagione, ad aprile. Segno meno, ma a doppia cifra (dal 10 al 20%) anche per il Lord Byron di Amedeo Ottaviani, la cui clientela è sempre stata prevalentemente americana. Ottaviani, che è stato anche presidente dell’Enit (Ente nazionale italiano per il turismo) cerca di contrastare il difficile biennio 2008-2009 potenziando le azioni di marketing turistico a livello internazionale. «Tenendo però a mente che il turista americano non è surrogabile con nessun altro al mondo! Viaggia infatti quasi tutto l’anno, grazie anche alle pensioni di anzianità che glielo consentono. Si parla tanto della Cina, ma prima che possa produrre un bacino di utenza per il turismo italiano come lo sono stati gli Usa e il Giappone ne passerà di tempo».

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