Golf, colpi da leggenda

Volti, trofei e luoghi che hanno fatto la storia: viaggio nell'epopea di questo sport per imparare i segreti dei campioni e sfatare qualche mito. Come quelli sul regolamento, così pericolosi quando ci si trova sul green

Facile dire leggenda. Ma se l’accezione di questo termine è di norma elogiativa, in realtà la parola può anche enfatizzare caratteristiche attribuite in modo ironico o trasmettere un significato opposto a quello apparentemente trasmesso. Il mondo del golf è una fonte quasi inesauribile di miti. E se Bobby Jones rientra a pieno titolo nel senso letterale del termine – unico nella storia a realizzare un Grande Slam – il fatto che il golf sia ancora uno sport elitario aiuta la diffusione di storie più o meno veritiere. La nostra selezione ci porta così a ritrovare leggende autentiche, da Arnold Palmer a Tiger Woods, da Saint Andrews alla giacca verde, tentando di schivare quelle “metropolitane” in cui ci si può imbattere e che possono indurre anche a clamorosi strafalcioni e… penalità sul campo da gioco.

Gli altri indimenticabili

Tiger, oltre il nickname

I BIG THREE Bobby Jones, Sam Snead e Ben Hogan – solo per citarne alcuni – risuonano sempre nei racconti sull’epopea secolare del golf. Ma è fuor di dubbio che dapprima Palmer, Nicklaus e Player, poi Norman e Tiger Woods, anche grazie al loro modo di essere e ai loro soprannomi, non solo abbiano dominato le loro epoche, ma pure trasformato il golf in una disciplina dalla visibilità mondiale. Arnold Palmer è stato il primo ad acquisire un’immagine visibile e forte. Il suo soprannome, “The King”, dice tutto. Disponeva addirittura di un esercito, la “Arnie’s Army”, la moltitudine di tifosi al suo seguito la cui varietà indicava quanto Palmer incarnasse anche un simbolo di normalità in un mondo ancora ammantato di esclusività: non aveva un’origine abbiente e i tifosi si riconoscevano in lui. Questo contribuì alla diffusione e alla crescita che questo sport ebbe da allora in modo trasversale. Tra i suoi diversi traguardi ce n’è uno che ne sintetizza molti: anche grazie all’avvento della Tv, di cui rappresentò uno dei primi veri personaggi, fu il primo sportivo a superare il milione di dollari di guadagni.

A spodestare il re, o almeno a rendergli la vita più difficile, ci pensò un ”Orso d’oro” (Golden Bear): Jack Nicklaus, che ancora detiene il record più ambito, quello dei 18 major vinti. Il nickname deriva proprio dall’attitudine competitiva (e dai capelli biondi) espressa in tutta la carriera. Quando vinse l’ultimo major, il Masters del 1986, aveva 46 anni. L’ingegno e la determinazione lo hanno portato poi, da quando era ancora campione, a diventare uno dei designer più apprezzati di campi, con alcune centinaia di percorsi costruiti in ogni parte del mondo, tra cui molti classificati tra i più belli e prestigiosi. Il suo noto marchio è, infine, un brand di successo dell’abbigliamento.

A fare da terzo incomodo ecco Gary Player, il “Cavaliere nero” (Black Knight) per il look adottato in campo, forse solo un po’ meno personaggio, ma capace con gli altri due mostri sacri di portare il golf a livelli mai visti prima. A conferma di un innato talento, fece le sue prime 18 buche a 14 anni, diventò un professionista solo tre anni più tardi e da lì non si fermò più: vittorie a ripetizione e nove major (unico non americano ad averli vinti tutti e quattro, obiettivo raggiunto a 29 anni), designer di oltre 300 campi, autore di decine di libri e – record non facilmente superabile – oltre 20 milioni di chilometri di viaggi in carriera.

LO SQUALO E LA TIGRE Per lungo tempo l’ombra lunga dei tre grandi si è estesa sul tour mondiale e Greg Norman è stato uno dei pochi capaci di uscirne. Il cappello da cowboy con cui calcava i green testimoniava, in un’epoca in cui il dress code pretendeva ancora molto, una personalità che in pochi esprimevano. E le moltissime settimane da numero 1 del mondo confermano quanto lo “Squalo bianco” abbia saputo abbinare determinazione e concentramarchio White Shark, che ha fatto di Norman un imprenditore affermato. E poi c’è lui! Seppur non apprezzato in modo unanime, è colui che più di ogni altro ha cambiato questo mondo, facendone una disciplina in cui i valori atletici hanno affiancato, come mai prima, il talento; in cui la cura del dettaglio, dall’alimentazione al rapporto con gli sponsor fino alla gestione della propria immagine, è diventata componente fondamentale.

La sua presenza nei tornei vale diversi punti di share in Tv e, se per molti anni l’avvento di Tiger Woods ha significato dover competere solo per il secondo posto, per tutti i professionisti ha significato la moltiplicazione di attenzione e sponsor. E la crescita dei montepremi ne è la prova più evidente. Considerando l’impatto mediatico e la risonanza che le sue vittorie, le sue performance, i suoi record – per non dire i suoi guadagni (circa 1,5 miliardi di dollari) – hanno avuto, l’effetto “Tiger” è andato ben al di là dei confini stessi del golf.

IL PRIMO DIVO FU ARNOLD PALMER,

FIGLIO DEL POPOLO

IN UN MONDO ANCORA

AMMANTATO DI ESCLUSIVITA’

LA GIACCA VERDE… Se è indubbio che siano i campioni a creare le leggende, è altrettanto vero che una specie di sacro Graal caratterizza il mondo del golf: la giacca verde. La sua storia inizia nel 1937 pochi anni dopo l’apertura dell’Augusta National, quando venne scelta come divisa dei soci. Questi, in occasione del Masters, la indossavano (non senza un certo fastidio per il tessuto pesante dei primi modelli) per essere facilmente individuati e aiutare gli ospiti. La svolta avviene nel 1949 quando diventa il simbolo anche del vincitore del Masters (il primo è Sam Snead). La cerimonia di consegna è uno dei momenti più significativi per il golf, con il vincitore che riceve la giacca verde (può tenerla solo fino all’anno successivo) dal campione uscente, che lo aiuta a indossarla. I campioni, ammessi a vita ad Augusta, hanno sempre a disposizione la loro green jacket al circolo e, nel caso la taglia cambiasse, ne verrà preparata una con le nuove misure.

Da notare che il “sarto”, non avendo certezza sul vincitore se non dopo l’ultimo colpo (data la imprevedibilità delle ultime buche), prepara giacche di più taglie. Se la giacca verde connota l’epilogo del torneo, un’altra divisa lo caratterizza in modo molto visibile durante la gara: i caddie, infatti, devono vestire tuta bianca, cappello verde del Masters e scarpe bianche da tennis. E forse non tutti sanno che ai campioni, prima affiancati dai caddie del circolo, solo dal 1983 è consentito utilizzare il proprio uomo di fiducia.

DOVE TUTTO EBBE INIZIO Pochi sport hanno un luogo così evocativo quale è Saint Andrews, the Home of Golf, la cittadina non lontano da Edimburgo ove si fanno risalire le origini di questa disciplina (si racconta che sin dal 12esimo secolo si praticasse il golf sui links di queste terre) e che trae il suo nome (in precedenza Kilrymont) da Sant’Andrea, l’apostolo di cui si narra qui si trovino le reliquie. A Saint Andrews trovano sede l’Old Course, il percorso che risale al Medioevo e che più di altri è teatro dell’Open Championship – il più antico torneo di golf della storia la cui prima edizione è datata 1860 – e il Royal and Ancient Golf Club (fondato il 14 maggio 1754), che oltre a essere il circolo più famoso del mondo è anche assurto a organo-guida del golf mondiale, insieme con la Usga.

L’OLD COURSE

DI SAINT ANDREWS,

VICINO EDIMBURGO,

RISALE AL MEDIOEVO

IVOR ROBSON, LA VOCE Nell’anno dell’ultima partecipazione di Tom Watson all’Open Championship, a 40 anni dal suo esordio vittorioso a Carnoustie (1975), un altro addio segna il mondo del golf. Ivor Robson ha annunciato che questa sarà l’ultima stagione della sua carriera come “voce” dello European Tour. Molti avranno capito che parliamo di quel signore distinto in giacca (verde) e cravatta che con la sua voce inconfondibile («On the tee, team number, from…») caratterizza uno dei momenti più significativi per un pro, quello che precede il primo tee shot. Robson da quattro decenni presenzia a tutti i tornei dando, con il suo tipico accento scozzese, il più iconico, asciutto, atteso e temuto: «I’ll let you go now!».

LE VERE “LEGGENDE” Per concludere la nostra carrellata, è parlando di regole che troviamo i più veri “falsi miti” del golf. Ne scegliamo uno esilarante come «palla “disturbata”, si ha diritto a rigiocare il colpo». Assolutamente falso. Se è vero che sul percorso ci deve essere educazione, può accadere che una voce troppo alta disturbi uno swing o un putt, con conseguenti flappe o rattoni a smontare score e morale del malcapitato. Ebbene, nulla avrà a disposizione la “vittima” se non un’occhiataccia o un rimbrotto verso il colpevole. Il consiglio è, pertanto, di conoscere non solo le leggende del golf, ma anche e soprattutto le regole. Meno divertenti ma molto utili!

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