Brand a tutta velocità

L’annuale classifica Interbrand fa riflettere anche l’industria automobilistica. Sono 14 i marchi a quattro ruote nei primi 100 del mondo: dal successo delle asiatiche alla crescita delle tedesche (nonostante il Dieselgate), sono lusso e innovazione i driver del successo globale di un’azienda. Con qualche clamorosa eccezione

Ogni anno, puntuale come una cartella di Equitalia, sulle scrivanie dei top manager di tutto il mondo arriva il rapporto di Interbrand, la società che con un algoritmo segreto almeno come quelli di Google attribuisce ai marchi un valore in soldoni, anzi, in dollaroni. Davanti alle sue sentenze c’è poco da dire, perché se voli in Borsa ma risulti bocciato vuol dire che da qualche parte fai acqua, magari perché vendi meno in un mercato strategico per il domani o hai avuto un calo di immagine che pare marginale, ma è come la farfalla che batte le ali in Brasile e provoca un tornado in Texas…

Semaforo green

«Parlare al cliente»

Ed eccolo il rapporto numero 16: appena lo apri esplode la mela di Cupertino, Apple per gli amici, che vale la bellezza di 170 miliardi di dollari, seguita non proprio a ruota da quelli dell’algoritmo primigenio, dato che Big G è valutata 120 miliardi. Già, ma i motori più o meno tradizionali, quelli che ci portano in giro ogni giorno nascosti sotto il cofano delle nostre auto? Tra i primi 100 marchi del pianeta ce ne sono 14 che appartengono a case automobilistiche, e scorrere la hit parade è un esercizio interessante. Al top del mondo delle quattro ruote, sesta assoluta, c’è la Toyota (49 miliardi di biglietti verdi il suo valore), che capitalizza gli investimenti fatti nello scorso ventennio nei propulsori ibridi e continua a scavare le fondamenta del suo futuro con la Mirai, prima vettura che va a idrogeno a essere prodotta in serie.

Dietro l’estro giapponese di una decina di posizioni nella hit parade ecco il pragmatismo tedesco, sotto le insegne di Bmw e Mercedes, rispettivamente undicesima e dodicesima con valori compresi tra 37 e 36 miliardi di dollari. La prima punta forte sulla nuova X1, la seconda sulla Classe A, ma il potere tedesco si conferma solido, considerando che rispetto allo scorso anno i due brand hanno scalato una decina di posizioni nella hit parade. Ne ha invece perse nove Volkswagen, scesa nella casella numero 35 e valutata circa 12 miliardi e mezzo. Poteva andare peggio, avranno pensato a Wolfsburg, ma il petardo dello scandalo delle emissioni truccate doveva ancora deflagrare in pieno: pochi giorni dopo è uscita la terza trimestrale dell’anno, che per casa Golf segnava un rosso di 3,5 miliardi di euro dovuti soprattutto all’accantonamento di 6.700 milioni in previsione dei costi causati dal software taroccato.

Se si vola in Borsa, ma al contempo

si perdono punti in graduatoria,

vuol dire che da qualche parte si fa acqua

Attenzione, però: mentre Vw perdeva colpi Audi saliva, per la precisione di cinque posizioni, arrivando a essere l’azienda planetaria numero 44 con un valore di dieci miliardi di dollari. Come si è salvata dai particolati tossici del Dieselgate? Puntando molto su modelli come la Rs 7 Sportback performance, che entrano a pieno diritto nel mercato del lusso, un Olimpo in cui nessuno ti chiede conto di niente e ogni cliente ha un conto in banca assai robusto. Vendere diamanti, sia pure con quattro ruote, insomma, premia sempre. Lo dimostrano le 12 posizioni scalate da Porsche, stretta parente ricca della Volkswagen, che ha mostrato tutta la sua vitalità tecnologica al recente Salone di Francoforte con la Mission E Concept e, fatto tutt’altro che secondario, ha vinto l’ultima 24 Ore di Le Mans (anche l’immagine del brand pesa sulle valutazioni di questa ultrascientifica graduatoria). Risultati per Audi e Porsche, comunque, legati alle performance 2015. Sul futuro del valore di questi due marchi si addensano nere nubi sulle quali si stanno concentrando le investigazioni dell’Epa, l’ente americano per l’ambiente che ha scatenato il Dieselgate Vw.

Ma scorrendo ulteriormente l’elenco balza all’occhio l’esplosione del Korean power: al posto 39, subito dopo Ford e prima di Canon, c’è Hyundai, mentre Kia scala cinque gradini e batte rivali del calibro di Mastercard, Shell e Harley-Davidson. La chiave di volta della riscossa di Seul sta in modelli come la Tucson e la Sportage, che hanno fatto uscire i marchi asiatici dall’ambito delle low cost e li hanno portati a competere ad armi (e prezzi) pari con le altre big. «Kia trae vantaggio anche dal rinnovamento totale della gamma», dice Giuseppe Mazzara, Marketing Communication & Pr Director della filiale italiana, «raccontato ai potenziali clienti con uno stile comunicazionale fresco e intelligentemente ironico».

I migliori brand

Ma la performance più clamorosa è quella targata Nissan, primo marchio a offrire la Leaf, un’auto elettrica di serie: 19 posizioni guadagnate per salire alla 49, davanti a Porsche, con un valore di poco superiore ai nove miliardi di dollari. «L’exploit di Nissan, passata in soli cinque anni dal 90esimo al 49esimo posto, dimostra che stiamo facendo le scelte giuste puntando su aree vincenti, generando coinvolgimento tra i nostri clienti e rimanendo al tempo stesso fedeli ai nostri valori», spiega Roel de Vries, Nissan Vice President e responsabile del marketing e della strategia di brand. Nelle motivazioni è sottolineato come Nissan abbia una grande capacità nell’attrarre la generazione dei millennials, di mettere in piedi efficaci attività di sponsorship e di offrire ampie possibilità di personalizzazione ai propri clienti.

Sul fronte europeo, tedesche a parte, brilla il brand Land Rover. Sta appollaiato sul gradino numero 87 del podio, vale 5,1 miliardi ma, soprattutto, guadagna ben 14 posizioni rispetto allo scorso anno, con il contributo decisivo di una lunga serie di modelli azzeccati che ha come emblema la nuova generazione della Discovery. Batte bandiera britannica anche l’unica new entry tra le case automobilistiche, la Mini, entrata ormai stabilmente nella galassia Bmw, ma capace di conquistare la posizione numero 98 continuando a coniugare brillantemente tradizione e modernità con vetture come la recentissima cinque porte. Detto che la Vecchia America è rappresentata dal marchio Chevrolet, dodicesimo nella categoria auto e 85esimo assoluto, tirando le somme emerge chiaramente che c’è un parametro che per gli analisti non conta proprio nulla.

Balza all’occhio l’esplosione del Korean power,

mentre ci si interroga sul futuro

delle tedesche dopo il Dieselgate

Quale? Ovvio, la passione che un brand motoristico può scatenare in tutto il mondo. Se così non fosse tra i primi 100 dovrebbe esserci la Ferrari che scalda i cuori da Maranello fino all’Alaska o alla Siberia (vedi intervista). Del resto, il Cavallino non è il solo a guardare di traverso il lavoro di Interbrand. Rosicano, per esempio, ai piani alti di compagnie aeree come Qatar Airways, Singapore Airlines e Cathay Pacific, considerate le migliori del mondo, ma penalizzate dalla difficoltà a mostrare profitti economici positivi sul lungo termine. E che dire della Nutella, uno dei marchi più riconosciuti dai consumatori a livello mondiale? I top manager della Ferrero ogni anno masticano amaro sapendo che il loro marchio di punta vale da solo quasi l’intero valore aziendale, cioè otto miliardi di euro. Altri brand, con in testa Ducati, Geox e Barilla, si sono invece dovuti fare una ragione: sono multinazionali tascabili e, dunque, vengono inesorabilmente escluse dalla graduatoria, così come le case farmaceutiche. In quest’ultimo caso la motivazione della bocciatura è particolarmente sottile: il consumatore tende a costruire una relazione con il prodotto piuttosto che con il brand e basta, per esempio, che arrivi in farmacia un “generico” per far calare le vendite dell’originale.

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