L’intervista a Silvia Spattini è parte di
Salari poco salati
«I salari non crescono perché non cresce la produttività del lavoro: il problema del nostro Paese sta tutto qui, anche se non emerge quasi mai dal dibattito pubblico. Lo confermano gli ultimi dati Istat: nel 2023 la produttività del lavoro è scesa del 2,5% rispetto all’anno precedente. E sappiamo anche il perché: l’incremento delle ore lavorate è stato superiore a quello del valore aggiunto. In altre parole, abbiamo generato la stessa quantità di prodotto in più ore». Silvia Spattini, ricercatrice Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro, conferma la diagnosi espressa nel libro di Garnero e Mania.
Quali sono i fattori che incidono sulla produttività del lavoro?
Investimenti in tecnologia e innovazione, formazione dei lavoratori, capacità manageriali, efficiente organizzazione del lavoro. Ma tutti questi aspetti in Italia sono legati a un dato molto importante: la dimensione d’impresa. Il nostro tessuto produttivo è caratterizzato da imprese di piccole, piccolissime dimensioni, tanto che si parla di “nanismo” d’impresa. Non meno importante è poi il contesto esterno: infrastrutture e politiche pubbliche.
Perché se la produttività è stagnante i salari non crescono?
Vediamola al contrario: un’impresa che vede crescere la produttività del lavoro ha una maggiore “ricchezza” da distribuire, e può decidere se trasferirla sui salari (e qui entrano in gioco i sindacati) o sui profitti. In caso contrario, questo non può succedere.
In Italia ci sono però anche tante aziende produttive…
Certamente, così come ci sono figure professionali di cui c’è scarsità sul mercato che ricevono retribuzioni elevate: il “prezzo” del lavoro si determina, infatti, come per qualsiasi altro mercato, dall’incontro tra domanda e l’offerta. Ma quando si parla di “questione salariale” ci si riferisce all’intera economia. E i dati ci dicono che i salari sono bassi.
Si può intervenire sui salari minimi contrattuali?
È difficile, visti i dati sulla produttività. Inoltre i salari minimi vengono contrattati nel momento in cui scade il contratto collettivo nazionale, e negli ultimi anni ci sono stati ritardi nei rinnovi. Infine l’aumento dell’inflazione non ha aiutato: nel periodo 2019-2024 le retribuzioni contrattuali hanno registrato una crescita del 9,1%, mentre l’aumento dei prezzi al consumo è stato del 17,4%. Risultato: una perdita del potere d’acquisto del 7,1%.
La contrattazione di secondo livello può aiutare?
La contrattazione di secondo livello consente di siglare accordi aziendali per l’erogazione di premi di produttività ai lavoratori al verificarsi di un incremento di alcuni indicatori (produttività, efficienza e innovazione, redditività, qualità). La criticità è che non è presente in tutte le imprese.
In Italia quando si parla di salari bassi si attribuisce la colpa al cuneo fiscale…
Il cuneo fiscale è parte del problema. Considerando che si compone dei contributi sociali versati dal datore di lavoro, di quelli versati dal lavoratore e dalle imposte sui redditi pagate dai lavoratori, una riduzione di una di queste componenti determina sicuramente un aumento dei salari netti. C’è anche da dire che se ci confrontiamo con gli altri Paesi Ocse, i dati non sono così negativi, lato lavoratore. Con il 47,1% di cuneo fiscale nel 2024 ci posizioniamo al 4° posto. Ma siamo al 12° posto in quanto a imposte sui redditi dei lavoratori e ben al 22° per contributi a carico del lavoratore.