Alla vigilia del 1° maggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha messo il dito nella piaga: «I salari inadeguati sono un grande problema per l’Italia. Incidono sul preoccupante calo demografico e sull’emigrazione di giovani qualificati all’estero».
Citando l’ultimo Rapporto Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro) 2024-2025, ha aggiunto «i salari reali sono inferiori a quelli del 2008». Una unicità tutta italiana. Ma anche un tema che, forse proprio per la sua natura multiforme, non è mai stato affrontato nella sua interezza, ma sempre concentrandosi su un aspetto singolo: il costo del lavoro, il cuneo fiscale, la mancanza di un salario minimo, una contrattazione collettiva inefficace.
L’occasione di avere una visione d’insieme ce la fornisce un libro importante, La questione salariale (Egea), scritto in forma di dialogo da Andrea Garnero, economista Ocse, e dal giornalista Roberto Mania.
Un’anomalia tutta italiana: salari fermi dal 1991
«Dal 1991 al 2023 in Italia i redditi annuali da lavoro, a parità di potere d’acquisto, sono scesi del 3,4%, contro un aumento del 30,9% di quelli francesi, del 30,4% dei tedeschi e del 9,15% degli spagnoli (dai Ocse)», esordisce Garnero. «Quasi trent’anni di stagnazione salariale, dunque. E il tema non riguarda solo chi guadagna poco, con un contratto part-time o di poche settimane, ma anche chi ricopre posizioni di livello medio e alto: questo ne fa davvero una questione nazionale».
Ma la stagnazione salariale si è accompagnata a un’altra unicità assoluta del nostro Paese: la stagnazione della produttività del lavoro, che dal 1995 in poi non è più cresciuta. «Il problema è che questi due fenomeni si autorinforzano, creando un circolo vizioso», continua Garnero. «Il calo della produttività limita la crescita dei salari, e i salari bassi costituiscono un incentivo a non innovare e non investire».
Il motivo, spiega uno studio dell’associazione Adapt, è l’effetto di sostituzione: per le aziende diventa più conveniente acquisire manodopera rispetto ad altri fattori produttivi come i beni di investimento. «Potevamo decidere di investire, fare formazione, cambiare il modo di produrre. Oppure tagliare i costi, tenere bassi i salari. Sopravvivere. Per una parte troppo importante delle imprese, quest’ultima è stata la scelta. Ci siamo specializzati su produzioni a basso valore aggiunto».
È chiaro che qualcosa è successo a metà degli anni 90. In quel periodo, infatti, la produttività italiana cresceva in linea con quella degli altri Paesi europei: Francia, Germania, Spagna. «Poi sono accadute due cose che hanno cambiato il mondo», continua Garnero, «la globalizzazione e la rivoluzione informatica. Fattori a cui si aggiunge per il nostro Paese l’entrata nell’euro, quindi la fine della lira e delle svalutazioni competitive, e la chiusura delle grandi aziende di Stato.
Una “tempesta perfetta”, alla quale l’Italia non ha saputo reagire. Come molti altri Paesi europei, ci siamo deindustrializzati, ma a causa delle nostre debolezze di fondo non siamo riusciti a cogliere i treni che passavano in quel momento».
Produttività stagnante e imprese troppo piccole
Il nodo è proprio qui: in ciò in cui l’Italia si è specializzata, o meglio “non” si è specializzata. «Quando parliamo di livelli di produttività, infatti, il problema italiano non è generalizzato, ma è concentrato nelle microimprese, quelle al di sotto di dieci dipendenti. Se ci confrontiamo con Francia e Germania, infatti, il livello di produttività del lavoro per le medie e grandi imprese è simile: dove si apre la “voragine” è nelle micro, che però in Italia pesano molto di più in termini numerici rispetto a questi Paesi, e tirano giù la media nazionale».
Nella Penisola c’è, com’è noto, una fascia medio-alta di aziende di alta qualità, ma il problema è che non è sufficiente a trascinare tutte le altre. Ma c’è un altro fattore da guardare: il posizionamento delle nostre imprese nella catena del valore. «Più ci si trova in alto, cioè più vicini al prodotto finito, più si estrae valore dal prodotto (che si trasforma in salari, tempo libero, profitti…) e si riesce a trascinare tutte le altre imprese della catena» riprende Garnero. Le nostre aziende, anche le punte di diamante, sono spesso a metà della catena, cioè fornitori di altri, e non riescono così a creare un grande effetto di sistema».
Parlare della questione salariale significa, dunque, indagare sui mali strutturali non solo della nostra economia, ma anche della società e della politica. Abbiamo aziende troppo piccole, specializzazioni usurate, pochi investimenti, poca innovazione, troppi debiti, poca formazione. Un sindacato che non ha fatto la sua parte, più attento allo scambio con la politica che alla difesa dell’occupazione. Un assetto istituzionale inadeguato, una pubblica amministrazione che rimane indietro.
C’è poi un problema culturale. Frasi autoassolutorie come “Il turismo è il petrolio dell’Italia”, “L’edilizia è il motore della crescita” o peggio ancora “Piccolo è bello” non ci faranno crescere. Perché non è da questi settori che arriverà la ricchezza. Dobbiamo cominciare a riconoscere che il problema esiste, e che parte dal modo in cui ci raccontiamo l’economia italiana».
Cinque proposte per ripartire
Quale potrebbe essere la soluzione alla stagnazione dei salari? Ecco cosa rispondono Andrea Garnero e Roberto Mania
- INVESTIRE NELLA CRESCITA DELLE IMPRESE
«Rivediamo le tante norme che frenano la crescita dimensionale. Sia lato incentivi, perché molte di queste nate con il buon proposito di promuovere chi si lancia o di aiutare il piccolo hanno creato costi immensi per chi vuole scalare. Sia lato disincentivi fiscali e normativi all’ingresso e alla crescita delle imprese, per esempio quando scattano obblighi importanti di reporting e compliance». - MIGLIORARE LE COMPETENZE DI LAVORATORI E MANAGER
«Gli ultimi dati Ocse Piaac (Survey of Adult Skills 2023) sono sconfortanti: un terzo degli adulti italiani ha un livello di alfabetizzazione limitato, cioè riesce a capire solo frasi molto brevi e semplici. E basse sono anche le competenze dei manager. Problema, anche questo, legato alla taglia delle imprese. Occorre dunque investire sulla formazione a 360 gradi». - RIORDINARE SISTEMA FISCALE E WELFARE
«Istituiamo una commissione per riordinare complessivamente il sistema fiscale e di welfare, come suggerito da Mario Draghi nel suo discorso di fiducia del 2021. C’è infatti una miriade di interventi non coordinati e addirittura in contraddizione tra loro che non riesce a raggiungere l’obiettivo finale». - RIORGANIZZARE LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
«Stiamo assistendo a una moltiplicazione di contratti nazionali, con l’introduzione dei cosiddetti “contratti pirata”, validi per una minoranza di lavoratori, che hanno un effetto “spada di Damocle” sul resto della contrattazione. A ciò si aggiunge un ritardo elevato (attualmente un anno) nel rinnovo dei contratti collettivi e una contrattazione di secondo livello che stenta a decollare». - RISPETTARE LE NORME CHE GIÀ ABBIAMO
«Dal 2019 al 2022 l’evasione contributiva è salita a 12,7 miliardi. C’è un lavoro da fare sull’aumento della conformità e del lavoro irregolare. Si parta dall’incrociare i dati che le PA hanno già (imposte, contributi, incidenti sul lavoro, ore lavorate, contratti, Iva sui prodotti venduti…) con gli strumenti statistici di cui disponiamo, per evidenziare discrasie sulle quali avviare le vigilanze ispettive».
Articolo pubblicato su Business People di maggio 2025, scarica il numero o abbonati qui
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