La giungla dei contratti

Secondo la Cgil esistono ben 800 intese collettive, ma potrebbero essere anche di più. Non c’è categoria, infatti, che sfugga alla tentazione di regolamentare a modo suo e garantire per iscritto stipendio, ferie e mansioni

In una Repubblica fondata sul lavoro come la nostra, un contratto collettivo di categoria non si nega a nessuno. Metalmeccanici come sacrestani, piloti d’aerei come filatori serici, bancari o ombrellai che siano, tutti hanno visto regolamentati e garantiti per iscritto stipendio, ferie e mansioni. Con un’attenzione al dettaglio che lascia a volte stupefatti. Gugliemo Epifani, il leader della Cgil, ha parlato dell’esistenza di circa 800 intese collettive, ma quante siano, e questo è già stupefacente, nessuno è in grado di dirlo. Neppure al Cnel, dove per legge le parti sarebbero tenute a depositare gli accordi. «Ma lo fanno soltanto le grandi organizzazioni. Infatti», spiegano sconsolati da Villa Lubin, «abbiamo un nostro addetto dell’archivio che passa le giornate tra ritagli di giornali e Internet per scoprire se sono stati siglati nuovi contratti».Per la cronaca il Cnel ne ha censiti la metà di quelli stimati da Epifani, cioè esattamente 401, ma è soltanto una parte di quella che negli anni è stata definita “polverizzazione”, “proliferazione” o “giungla dei contratti”. E che ha comportato al sistema-Paese un prezzo pesantissimo in termini di concorrenza, costo del lavoro o conflittualità. «La giungla», spiega Beppe D’Aloia, ricercatore dell’Ires, «oscilla tra il contratto metalmeccanico che unifica le condizioni di 1,7 milioni di dipendenti (compresi anche quelli della manutenzione); un sistema come quello dei tessili che si articola con intese differenziate per tipologia d’impresa e per merceologia, fino a una pluralità di microaccordi, in microsettori, che si identificano con un’azienda o con un’associazione datoriale».

Le controparti

Il problema della quantità abnorme di contratti collettivi di lavoro viene da lontano e anche i sindacati sostengono la necessità di sfoltire la foresta degli accordi. Nel 1972 la Cgil, infatti, spinse per una razionalizzazione nelle piattaforme dei tessili (a oggi sono ancora 30). Ma le imprese non vollero. Nel 2001 l’Ires propose un maxi accorpamento per arrivare a 40 accordi, mentre l’ex segretario della Cisl, Savino Pezzotta, ne fece una delle priorità del suo mandato. E l’attuale vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, ripete appena può che i contratti collettivi «bisognerebbe contarli sulle dita di una mano».Confederali e Confindustria, quindi, sembrano essere sulla stessa lunghezza d’onda. Peccato che la giungla contrattuale sia accompagnata da una giungla di controparti. Da un lato, la mancata applicazione dell’articolo 39 della Costituzione ha impedito una scrematura delle sigle in base agli iscritti, permettendo però a chiunque di sedere al tavolo delle trattative; dall’altro, c’è un fortissimo caos datoriale visto che nei tavoli di palazzo Chigi siedono venti rappresentanze. E succede che, se una piccola associazione rompe il fronte e trova una controparte, ci sono le condizioni per imporre un nuovo contratto. «Le associazioni datoriali», accusa Gianni Baratta, segretario confederale della Cisl, «hanno seguito questa strada sia in base a una loro logica organizzativa sia per entrare in contatto con certi ministeri. Noi confederali possiamo prendere tempo, ma alla fine siamo stati costretti a riconoscerli».Quindi i buoni propositi non si traducono in comportamenti concreti. Facciamo alcuni esempi: l’intesa Unicum dei meccanici, che pure comprende nove comparti industriali diversi, si scompone in 13 accordi. Se il commercio vanta 61 contratti, i trasporti li seguono a ruota con 59. Una ventina di tavoli poi nel credito, nell’edilizia e nell’agroalimentare. E non è più virtuoso lo Stato come datore di lavoro: pur potendo sfruttare la legge sulla rappresentanza nella pubblica amministrazione, firma direttamente o indirettamente 43 rinnovi per gli enti istituzionali privati o 39 per le amministrazioni pubbliche. Eppoi datori e rappresentanti dei lavoratori sono puntigliosi nel distinguere livello professionale, forma giuridica d’impresa, filiera merceologica, dimensioni d’azienda o numero di dipendenti. Così facendo, quelle che hanno il pomposo titolo di contratti collettivi, spesso non sono altro che contratti aziendali di micro categorie.Scorrere l’archivio del Cnel è una lettura educativa e per certi aspetti avvincente. Nel calderone del commercio, dove c’è spazio sia per i dipendenti delle farmacie pubbliche sia per quelli delle private, il caso più emblematico è quello del turismo con i suoi cinque accordi.

La realtà caotica

Minuzie rispetto al caos del trasporto. Se ne sono accorti anche Roberto Colaninno e Rocco Sabelli. Pur campioni di divide et impera nel magma sindacale della vecchia Alitalia, i vertici di Cai, la finanziaria proprietaria dell’Alitalia, hanno dovuto desistere di fronte ai piloti dell’Anpac, quando hanno provato a inserirli in una piattaforma unica per tutte le maestranze. Sì, perché nel comparto aereo non esistono accordi di categoria: ogni azienda regola in modo diverso le diverse professionalità. Un vizio, in verità, che sul versante gomma e ferro si è superato lanciando due contratti: attività ferroviarie e trasporto pubblico locale. Il sogno è un’intesa unica per la mobilità, ma al momento le parti sono lontane. Un caleidoscopio di fattispecie scandisce, poi, il mondo dei marittimi: 27 intese che si differenziano non soltanto per le mansioni, ma anche per le tonnellate delle navi sulle quali ci si imbarca o per le acque (lagunari o lacuali) battute. In ogni caso poca cosa rispetto al contratto per gli addetti alle funivie terrestri e aree. I lavoratori delle funivie minacciarono di scioperare il 7 dicembre 2008; se lo avessero fatto sarebbe stato un colpo letale per la stagione sciistica. Si arrivò a un accordo che sembra contrario a ogni logica di mercato. Oltre all’una tantum da 400 euro, si estese il tempo indeterminato a un’attività che quasi sempre è stagionale. Anche per questo i suoi lavoratori hanno accettato sia un orario settimanale di 54 ore sia la perdita di metà giornata quando gli impianti restano chiusi per troppa neve o vento.

Mappare per conoscere

Si può uscire da questa situazione che ha i profili inquietanti dell’assurdo? Forse sì. L’accordo-quadro sulla riforma dei contratti firmato a gennaio senza l’ok della Cgil di Epifani prevede, al punto 19, un tavolo per dare una sforbiciata alle intese esistenti. Una mano potrebbe darla l’introduzione di una legge sulla rappresentanza nel privato e la durata triennale sia della parte giuridica sia di quella economica di qualsiasi contratto. «Eppoi», aggiunge Baratta, «la contrattazione di secondo livello costringe le parti a coagulare un’ampia platea di interessati». Aggiunge Agostino Megale, segretario confederale della Cgil: «Ai tavoli noi ci saremo, perché sono temi che ci stanno a cuore. Non a caso l’Ires (“ufficio studi” della Cgil, ndr) nel 2001 propose un accorpamento dei contratti».In attesa che parta la discussione, tutti i protagonisti avrebbero già delineato un percorso di massima: prima una commissione per mappare la situazione e cercare di capire una volta per tutte come stanno davvero le cose, quindi lo studio e il superamento delle possibili “interferenze”. Tempo necessario: minimo tre anni. Ma non tutti lavorano per disboscare questa giungla. Anzi, alcuni ce la mettono tutta per farla crescere più rigogliosa che mai. Confagricoltura, Coldiretti e Cia da un lato, Fai-Cisl e Uila-Uil dall’altro, dopo una lunga battaglia, sono, infatti, riusciti a istituire un nuovo, ennesimo “contratto collettivo nazionale di lavoro” che regola “i dipendenti delle imprese di manutenzione, sistemazione e creazione del verde pubblico e privato”. Un contratto ovviamente “indispensabile”, che dà una giusta collocazione a un migliaio di lavoratori, altrimenti destinati a restare nell’angusto recinto dei florovivaisti, reso “necessario” perché i potatori, a differenza degli altri giardinieri, non coltivano mica le piante…In questo marasma che nessuno sa regolare, spesso il limite tra spinta alla produttività e sfruttamento è molto labile. E non possono mancare vere o presunte truffe. Sono i cosiddetti contratti pirata, dove ambigue associazioni di datori e sindacati di nicchia si accordano su retribuzioni anche più basse del 10% rispetto alle intese di categorie. In alcuni casi la magistratura è intervenuta per bloccare la cosa, in altri ha finito per dare il suo assenso. Spiega D’Aloia: «La Costituzione riconosce diritto un trattamento economico equo. Di conseguenza soltanto i tariffari dei contratti nazionali hanno valenza erga omnes. Il resto diventa derogabile e così si arriva a intese penalizzanti».Non lesina in regolamentazioni e fattispecie neanche la Chiesa, che ha un contratto di lavoro ad hoc per le fabbricerie. Ma quanto a trattative, perfino i falchi della Confindustria avrebbero da imparare: il contratto dei sacristi impone 45 ore settimanali, mezz’ora di pausa giornaliera, paletti per prendere il giorno libero il sabato o il domenica. La categoria può però vantare un superfestivo del 50% se lavora alla messa natalizia della notte e dieci giorni di permesso per i ritiri spirituali. Rientrano nel loro percorso di formazione professionale.

Numeri da capogiro

61

Contratti nel commercio

59

Nei trasporti

20

Nel credito, nell’edilizia e nell’agroalimentare

© Riproduzione riservata