C’è vita oltre l’articolo 18

Quello della libertà di assumere/licenziare è diventato il tema più caldo del welfare nostrano. Ma all’interno della legge ci sono molti altri elementi, forse più decisivi per il futuro dei lavoratori, che spesso non vengono presi in considerazione. Vi raccontiamo quali sono e cosa ne pensano i giuslavoristi italiani

La data è già fissata sul calendario e non ammette rinvii: 1 gennaio 2013. Da quel giorno, il destino di milioni di disoccupati italiani sarà legato a doppio filo a un nuovo ammortizzatore sociale ideato dal ministro del Welfare, Elsa Fornero, e destinato a entrare in vigore con la prossima riforma del mercato del lavoro. Si chiama Aspi* (Assicurazione sociale per l’impiego) e prevede l’erogazione di un sussidio in denaro a tutti (o quasi a tutti) i lavoratori dipendenti che vengono lasciati a casa da un’azienda per motivi non riconducibili alla loro volontà, cioè in seguito a un licenziamento (individuale o collettivo) e non per dimissioni spontanee. A detta del ministro Fornero, l’introduzione di questa nuova indennità rappresenta una tappa importante per modernizzare il sistema del welfare del nostro Paese, avvicinandolo a quello di molte altre nazioni europee e sfoltendo una fitta selva di sussidi e protezioni sociali già esistenti, che spesso sono molto generosi con chi li riceve ma che, a ben guardare, tutelano soltanto una minoranza di lavoratori, in particolare i dipendenti delle imprese industriali di medie e grandi dimensioni. Per chi si oppone alla riforma, invece, l’Aspi rappresenta un cambiamento quasi “gattopardesco”, perché toglie alcune garanzie a una parte dei disoccupati, senza estendere i sussidi a chi attualmente non può ancora beneficiarne.

L’ACCOGLIENZANei mesi scorsi, durante il dibattito sulla riforma del welfare, molti esponenti del sindacato e delle forze politiche non hanno risparmiato sonore bordate al ministro Fornero ma, a onor del vero, le polemiche si sono in gran parte concentrate su un tema scottante: la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che disciplina i licenziamenti individuali che avvengono senza una giusta causa. Sugli ammortizzatori sociali, invece, i toni del dibattito sono stati assai più sfumati. Anzi, la nuova disciplina dell’Aspi ha incassato qualche piccolo elogio anche da parte di alcuni osservatori critici che, nel complesso, oggi danno un giudizio molto negativo sulla legislazione del lavoro voluta dal governo Monti e che rimproverano al ministro del welfare di aver cambiato l’articolo 18 in modo molto confuso, per non dire “raffazzonato”. «La parte della riforma che tratta gli ammortizzatori sociali è forse quella che mi piace di più o, per meglio dire, quella che mi scontenta di meno», afferma per esempio Giuliano Cazzola, deputato del Pdl, vicepresidente della Commissione Lavoro alla Camera che, nelle settimane scorse, ha invece bocciato su quasi tutti i fronti le altre misure introdotte dal ministro Fornero.Un giudizio complessivamente positivo sull’Aspi è arrivato anche da Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia ed ex allievo di Marco Biagi che, sul testo complessivo della riforma del welfare, non è mai stato tenero con il governo. Nelle settimane scorse, nel sito dell’istituto Adapt, Tiraboschi ha pubblicato con un team di ricercatori un e-book dal titolo Lavoro: una riforma a metà del guado, in cui apprezza soprattutto una cosa: il tentativo del ministro Fornero di razionalizzare il troppo frammentato sistema italiano dei sussidi alla disoccupazione. I ricercatori dell’Adapt, però, mettono in evidenza anche un aspetto critico, tutt’atro che trascurabile: in primo luogo, scrivono i docenti dell’istituto, «questo ammortizzatore sociale è ben lontano dall’essere universalistico», cioè destinato a tutti i lavoratori che hanno realmente bisogno di assistenza, come aveva auspicato qualche mese fa il ministro Fornero. Inoltre, a detta di Tiraboschi e del suo team, l’introduzione dell’Aspi «provocherà un incremento dei contributi a carico delle aziende, specialmente quelle di piccole e medie dimensioni». Il perché di questo giudizio non è difficile da capire se si analizza il meccanismo di funzionamento dell’Aspi, che entrerà gradualmente in vigore tra il 2013 e il 2015.

COME FUNZIONAI nuovi sussidi verranno infatti finanziati da un contributo a carico delle aziende che arriva fino all’1,3% del salario. Per i contratti di lavoro a tempo determinato (che il governo vuole disincentivare) è previsto un’ulteriore aggravio dell’1,4%, con una contribuzione complessiva che raggiunge il 2,7% della retribuzione. Come ha messo in evidenza Tiraboschi, dunque, per le imprese è prevista una crescita del costo del lavoro tutt’altro che trascurabile. Era proprio necessaria? Mentre l’allievo di Marco Biagi solleva qualche dubbio, un’opinione un po’ diversa viene espressa invece da Tiziano Treu, senatore del Partito democratico ed ex ministro del Welfare nel primo governo Prodi. In un intervento sul quotidiano Europa, Treu ha riconosciuto infatti alla riforma Fornero soprattutto un merito: quello di introdurre «una semplificazione del sistema degli ammortizzatori sociali, impostandolo su due istituti fondamentali, esistenti in molti altri Paesi: la cassa integrazione guadagni, applicata nei casi di congiuntura sfavorevole e di crisi aziendale, e l’indennità di disoccupazione, per chi si trova in uno stato di mancanza definitiva di lavoro».Il nuovo assegno mensile erogato ai disoccupati, secondo il modello-Fornero, non sostituirà infatti la cassa integrazione ordinaria e straordinaria (che, anzi, verranno estese dal governo alle aziende che oggi non possono beneficiarne). A essere eliminate saranno invece altre indennità oggi esistenti, come la cassa integrazione in deroga, l’assegno di mobilità e alcuni sussidi minori. L’importo dell’Aspi sarà pari al 75% dell’ultimo stipendio (25% per la parte che supera i 1.180 euro) e avrà comunque un tetto massimo di 1.119 euro. Per la durata del trattamento, invece, è previsto un limite di 12 mesi, che potranno essere prolungati fino a 18 per i lavoratori che hanno già compiuto i 55 anni. Dopo il primo semestre, l’indennità verrà ridotta del 15% e di un ulteriore 15% dopo altri sei mesi (se il disoccupato ha ancora diritto a percepirla). Come hanno messo in evidenza molti osservatori, però, non tutti i dipendenti che perdono il posto potranno beneficiare dei sussidi: sono esclusi per esempio i collaboratori a progetto e le false partite Iva, cioè i lavoratori autonomi che operano per una sola azienda (e sono dunque assimilabili a un qualsiasi dipendente, essendo soggetti a un vincolo di subordinazione). Inoltre, per beneficiare dell’Aspi, i disoccupati (compresi gli ex-apprendisti) dovranno aver lavorato per un periodo di almeno 52 settimane negli ultimi due anni. Chi ha avuto dei contratti di durata breve (purché superiore a 13 settimane nell’arco di un anno) avrà invece diritto a un trattamento più modesto: si chiama Mini-Aspi ed è un sussidio mensile di uguale importo a quello ordinario (cioè arriva fino a 1.119 euro al mese) ma copre un periodo ridotto, pari alla metà delle settimane effettivamente lavorate. Ed è proprio su quest’ultimo punto che il ministro Fornero ha incassato molte critiche nel mondo politico e sindacale. Secondo gli oppositori della riforma, infatti, per essere realmente efficace e avvicinare l’Italia all’Europa, la nuova Aspi avrebbe dovuto coprire una platea di lavoratori più vasta, comprendendo anche quelli che hanno una carriera molto discontinua con periodi di occupazione brevissimi, al di sotto delle 52 settimane. A ben guardare, in molti altri Paesi del Vecchio continente l’indennità ordinaria alla disoccupazione non è molto più generosa di quella italiana (LEGGI). In Germania, in Francia in Spagna e persino in Svezia, l’assegno arriva a coprire tra il 40 e il 80% dell’ultimo salario e ha una durata limitata nel tempo. In Gran Bretagna, invece, l’importo del sussidio è addirittura molto più contenuto e non supera i 75 euro a settimana. Inoltre, ed è questo il particolare più significativo, anche all’estero bisogna aver accumulato un po’ di anzianità contributiva per poter beneficiare dell’indennità. In alcuni casi, il limite minimo è di soli quattro mesi ma, a volte, raggiungere addirittura i tre anni (come nel caso della Spagna).

GUARDANDO ALL’EUROPA – 8 diversi sistemi di welfarePer questo, Cazzola ritiene che gli ammortizzatori sociali creati dal ministro Fornero siano abbastanza in linea con il modello di welfare adottato nel resto d’Europa. Piuttosto, secondo il deputato del Pdl, ci sono altri due fattori che tengono il nostro Paese lontano dal Vecchio continente: la mancanza di un reddito minimo garantito per legge e di una forma di protezione sociale anche per i disoccupati cronici o chi non è ancora riuscito a inserirsi nel mondo del lavoro. In molti Paesi europei, dalla Germania all’iperliberista Gran Bretagna, lo Stato eroga infatti una indennità in denaro (seppur di importo abbastanza ridotto) anche a chi non ha mai versato contributi. Purtroppo, però, la situazione tutt’altro che rosea dei nostri conti pubblici non rende al momento possibile, secondo Cazzola, l’introduzione di un ammortizzatore sociale di questo tipo anche a Sud delle Alpi.Per il deputato del Pdl, va poi messo in evidenza un altro fattore che differenzia i sistemi del welfare stranieri da quello italiano: in molti Paesi europei esistono delle politiche abbastanza efficaci per agevolare il reinserimento dei disoccupati nel sistema produttivo. Per non perdere il sussidio, infatti, i senza lavoro devono dimostrare di impegnarsi attivamente nella ricerca di un impiego, sostenendo dei colloqui periodici di fronte alle autorità pubbliche (a volte anche con frequenza settimanale come nel caso del Regno Unito). «In Italia, invece, spesso i disoccupati incassano i sussidi e poi fanno quello che vogliono o addirittura lavorano in nero», dice ancora Cazzola. Anche su questo punto il ministro Fornero ha introdotto qualche cambiamento: nel testo della riforma c’è scritto infatti che i Centri per l’impiego dovranno proporre ai disoccupati che beneficiano degli ammortizzatori sociali un programma di formazione di durata non inferiore alle due settimane. Inoltre, il disoccupato perderà il diritto al sussidio se rifiuterà un’offerta di lavoro “congrua”, che prevede una retribuzione non inferiore di oltre il 20% alla stessa indennità percepita e che arriva da un’azienda o da ufficio ubicato a non più di 50 chilometri dalla zona di residenza del candidato (o che sia comunque raggiungibile con i mezzi pubblici in meno di 80 minuti). Questi vincoli hanno appunto lo scopo di incentivare il lavoratore a impegnarsi attivamente nella ricerca di un nuovo impiego e si ispirano a un modello già adottato con successo in Danimarca, che piace molto a Pietro Ichino, noto giuslavorista e senatore del Partito Democratico. Pur apprezzando la riforma Fornero, Ichino ha tuttavia sollevato qualche dubbio su questa parte della legge, poiché non è ancora ben chiaro come i Centri per l’impiego riusciranno realmente a svolgere bene il loro compito. «Si enuncia la necessità che al lavoratore venga offerta un’assistenza adeguata per il reperimento della nuova occupazione», ha scritto Ichino nel proprio sito Web personale, «ma non si individuano gli incentivi che possano trasformare un’amministrazione fin qui molto inefficiente in un produttore di servizi di buona qualità». In altri termini, secondo il senatore, il sistema rimane sostanzialmente burocratico e «non si capisce bene perché dovrebbe incominciare a funzionare per effetto della nuova norma, se fino a oggi non ha funzionato».

*L’ASPI CHE COS’È

Una sigla che indica l’Assicurazione Sociale per l’Impiego, una nuova forma di protezione per i disoccupati che sostituirà gli assegni di mobilità, la cassa integrazione in deroga e altri sussidi esistenti.COSA PREVEDE – Chi perde il lavoro avrà diritto a un assegno pari al 75% della retribuzione (25% per la parte di salario che supera 1.180 euro mensili). È previsto un tetto massimo per l’assegno di 1.119,32 euro.QUANTO DURA – La durata massima è di 12 mesi (18 mesi per chi ha già compiuto 55 anni). Dopo sei mesi l’assegno si riduce del 15% e di un ulteriore 15% dopo altri sei mesi (per chi di ne ha ancora diritto)CHI NE HA DIRITTO – Il beneficiario deve aver lavorato per almeno 52 settimane negli ultimi 24 mesi. Se il lavoratore ha versato i contributi per un periodo più breve (ma di almeno 13 settimane nell’ultimo anno) ha diritto allo stesso assegno ma per un periodo ridotto, pari alla metà delle settimane lavorate. Fonte: Testo della riforma del lavoro.

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