Naming: a ogni cosa il suo nome

Aziende, prodotti, servizi: scegliere il termine migliore per proporli al pubblico è un lavoro da professionisti. Perché presentarsi nel modo giusto è fondamentale per lasciare il segno, come racconta l’esperta Linda Liguori

Trovare il nome per un prodotto o un’azienda? Basta rifletterci qualche minuto, metterci un po’ di creatività e il gioco è fatto. Macché! Le cose non sono affatto semplici come possono apparire. Al punto che già negli anni 80 ha iniziato a svilupparsi una professionalità specifica: il naming o brand naming, cioè lo studio dei nomi commerciali, e a distanza di quattro decadi nel mondo ci sono pure agenzie specializzate. «È sempre più importante che a guidare la scelta di un nome sia una strategia», spiega Linda Liguori, che questo mestiere lo fa da più di 20 anni e che collabora con grandi aziende italiane e internazionali. «Bisogna capire a chi il nome deve parlare, cosa deve dire e come. In un’epoca in cui la riproduzione di prodotti e servizi è molto semplice, è fondamentale costruire in modo coerente l’immagine per cui si vuole essere ricordati. E il nome, come avviene per le persone, è il centro dell’identità».

Quindi, da dove si comincia? La prima cosa da fare è sintonizzarsi con la propria impresa, il proprio prodotto o servizio. Non bisogna pensare di dover spiegare come funzionerà, ma individuarne l’essenza vera e la personalità che dovrà rimanere in mente all’utente finale. Poi si passa ad analizzare concorrenza e target. Solo a questo punto ci si può concentrare su concetti e valori da esprimere, e provare a tradurli in parole. Si tratta di una fase molto aperta e divergente, in cui parto da ogni concetto e metto nero su bianco tutte le parole che mi vengono in mente. Solo dopo aver riempito pagine e pagine di nomi inizio a evidenziare quelli più espressivi. Anche in questo caso si tratta di un lavoro progressivo, che passo dopo passo mi porterà a selezionare i 10-15 nomi che esprimono meglio il messaggio.

Possiamo fare un esempio? Prendiamo gli operatori di telefonia. Se sbarco su un nuovo mercato in cui nessuno mi conosce, vorrò comunicare che sono affidabile, che ho un passato, quindi solidità e storicità. Si presterà bene un nome greco o latino, o comunque legato alla storia. Ecco Iliad. Anche chi non ha fatto studi classici ha sentito parlare dell’Iliade e di Omero. Se, invece, il mio desiderio è dare un’idea di modernità e freschezza punto su Wind. Sempre in questo ambito, segnalerei anche Eolo. Questo nome è una scelta importante di posizionamento per un’azienda di tecnologia che porta la linea wireless nelle località non raggiungibili dalle infrastrutture. Certo, implica un target di una certa cultura che sappia che Eolo è il dio dei venti…

Per la sua esperienza, qual è l’errore più comune in questo processo? Voler spiegare il prodotto e finire per usare termini generici e descrittivi. Questi nomi sono rassicuranti, ma hanno meno grinta e personalità.

C’è chi, invece, conia addirittura dei neologismi. È una buona strada? Dipende da cosa voglio comunicare e dal settore in cui opero. Per esempio, nel mondo del food & beverage è poco rassicurante per il consumatore se si usa un nome che non abbia quanto meno una radice riconoscibile, mentre i neologismi non sono rari nei comparti della tecnologia e delle automobili. Il fatto è che un nome totalmente inventato lavora solo a livello fonetico e non sull’aspetto del significato, quindi si preclude parte del messaggio. Per carità, anche la fonetica può dare messaggi forti, ma se c’è anche un senso della parte semantica del nome la combinazione è più forte.

In un mondo sempre più globalizzato l’inglese offre una marcia in più? Sì, apre molte porte, perché è una lingua che sta diventando affine anche a strati di persone che prima non potevano accedervi. Inoltre, aiuta a trovare un nome che funzioni in diverse culture. Ormai anche i Paesi asiatici sono abituati ai termini espressi in caratteri occidentali e la sonorità inglese è più familiare.

A conti fatti, in un nome conta di più la razionalità o la componente emotiva? Senz’altro la seconda. Ci sono altri modi per agganciarsi alla razionalità. Per esempio, molti brand hanno una baseline, una piccola formula di tre o quattro parole che, in genere, nei loghi è indicata sotto il nome. Ecco, lì posso dire chi sono e cosa faccio, gli aspetti più razionali.

Questa baseline o payoff è fondamentale? Molti prodotti o brand non lo usano, ma aiuta. Per esempio, anche solo scrivere “Dal 1905” dice molto in soli sette caratteri. Ci sono payoff ormai storici, penso a “Galbani vuol dire fiducia”, o “Connecting people” o “Just do it”.

Ci sono degli strumenti che possono aiutare nella fase di brainstorming e poi nella selezione? Nel processo creativo è utile tutto ciò che aiuta a uscire dagli schemi. Io utilizzo molto le mappe mentali, quindi scrivo un concetto al centro e associo come pianeti tutti i termini che mi vengono in mente di conseguenza. E poi ancora esploro ciascuna di queste prime indicazioni. La rete offre inoltre molti thesaurus che, soprattutto per l’inglese, danno numerose suggestioni. Esistono anche thesaurus visivi. Infine, la ricerca per immagini dei motori di ricerca può offrire spunti interessanti. Sul fronte della selezione, invece, ci sono filtri più tecnici per chi fa il mio lavoro. Già un’analisi dei marchi registrati aiuta a eliminare l’80%-90% dei nomi che avremmo pensato. Altro aspetto cui pensare è poi quello linguistico, in particolare la semplicità di pronuncia.

Una volta individuato il nome il lavoro è concluso? No! Quando si è fatta la scelta e ci si è assicurati che nessun’altro stia già usando quel nome, la cosa migliore da fare è depositarlo come marchio per poter impedire che altri in futuro ne usino uno identico o molto simile. Poi al giorno d’oggi la presenza online è fondamentale, quindi va registrato il nome di dominio. Bisogna anche costruire il logo, quindi la veste grafica del nome, e decidere se accompagnarlo con un payoff. E ancora creare il profilo LinkedIn e la pagina Facebook…

Senta, ce lo fa l’esempio di un nome che trova azzeccato? Ne cito uno che è stato criticato, ossia Nexi, il nuovo nome di CartaSì. È vero che questo termine non ha un significato letterale, ma dà un messaggio forte di connessione e la x al suo interno dona una “impronta” di tecnologia che completa il tutto. Sono solo quattro lettere, un bisillabo facile da pronunciare, con una i finale (non la solita y!) a dare un senso di italianità, che suggerisce qualcosa di moderno ma non freddo. Proprio questa “i” finale e la brevità suggeriscono l’idea amicale di qualcuno che ti sta vicino. Sia nel concetto che nella forma c’è un senso di prossimità, nex-next, quindi l‘essere vicino ma anche il futuro e la modernità. Ecco ritengo sia un nome forte, che funziona sul mercato italiano e dà un’immagine di rinnovamento rispetto all’originario CartaSì.

Un nome su cui si poteva fare di più? Trovo poco efficace Cortana, scelto per l’assistente vocale di Microsoft. Sicuramente l’intenzione era quella di richiamare un significato internazionale derivato da courtesy, ossia cortesia, affabilità, ma sul mercato italiano non funziona, perché foneticamente fa pensare a qualcosa di piccolo, corto.

Se il nome rappresenta il cuore dell’identità non può cambiare, oppure sì? In genere il nome di un’azienda cambia solo se si verifica un mutamento importante a livello societario, una fusione o un’acquisizione. Nel caso di alcuni prodotti si può optare per un cambiamento che risponda a una logica internazionale. Mi viene in mente il Twix, che in alcuni Paesi era venduto come Rider e che ora viene commercializzato a livello globale con il nome più forte. In questo caso la scelta risponde all’esigenza di fare economie di scala, per esempio sul packaging. Inoltre, un cambiamento va preso in considerazione quando il nome diventa limitante o perché è sempre più necessario spiegarlo. Un caso che ha fatto la storia in questo senso è quello di Perlana, scelto in origine per sottolineare che questo detersivo era specifico “per la lana”. Ai tempi era un tratto distintivo importante nel settore. Ora però non lo è più e quando Perlana ha iniziato a proporre prodotti anche per altri tessuti il nome è divenuto un ostacolo. La scelta è stata quella di tenerlo comunque e sfruttare questo limite per farne un’idea di comunicazione – “Perlana? Ma non è per la lana?” –, personalmente credo che avrebbero potuto optare per un cambiamento di nome e sfruttare gli spot per comunicare qualcosa di più interessante.

Concludiamo con un suo consiglio spassionato? Osate, siate audaci. L’originalità paga perché crea distintività, aiuta a farsi notare e posizionarsi in modo diverso dai concorrenti. Non sono per la trasgressione a tutti i costi, ma se siete nel dubbio non buttatevi sul nome più convenzionale.

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