Nel segno della Shari’a

I principi della finanza islamica sono semplici, ma piuttosto ostici per il resto della comunità economica internazionale. Come mai? È che sono regolati da un profondo ordine morale che vieta nel modo più assoluto la speculazione e l’investimento in attività non nobili. Meglio cominciare a familiarizzarci, anche perché il business con il Medio Oriente è in continua crescita

Da mesi, nei dintorni di Istanbul, le ruspe e le escavatrici lavorano intensamente. Stanno costruendo il terzo ponte sul Bosforo, un altro anello di congiunzione tra l’Europa e l’Asia, che rappresenta l’ennesima opera faraonica (da 3,5 miliardi di euro) voluta dal contestatissimo premier turco, Recep Tayyip Erdogan. Per sostenere le spese di costruzione, il governo di Ankara farà probabilmente ricorso ai sukuk sovrani, una categoria di strumenti finanziari che somigliano, seppur molto alla lontana, ai nostri Buoni del Tesoro. Anche i sukuk sovrani sono obbligazioni del debito pubblico garantite dal governo ma, a differenza dei tradizionali titoli di Stato (emessi in grande abbondanza nel sistema finanziario internazionale), hanno una particolarità importante: non garantiscono il pagamento di interessi in denaro che, per le leggi del Corano, sono uno strumento peccaminoso. Chi acquista questi titoli ha invece diritto a incassare una quota dei profitti generati dall’opera pubblica che verrà costruita (per esempio i pedaggi stradali, nel caso di un ponte come quello sul Bosforo). I PRINCIPI CORANICI SUI QUALI SI BASA LA FINANZA ISLAMICA

I SUKUK E IL MONDO DEL BUSINESSI sukuk sono un tipico strumento della finanza islamica, cioè di quel variegato insieme di attività creditizie e d’investimento che, nei Paesi di religione musulmana (ma non solo), si svolgono nel pieno rispetto della Shari’a, la legge di Allah che il profeta Maometto ha portato sulla Terra. Alla base di tutte queste attività, ci sono diversi precetti etici che, applicati nella pratica quotidiana degli affari, si traducono in alcune importanti regole di comportamento: il divieto di prestare denaro in cambio di interessi (Riba), di mettere in atto operazioni fraudolente approfittando dell’ignoranza o della buona fede altrui (Gharar) e di dedicarsi ad attività speculative non collegate all’economia reale (Maysir). Infine, per un buon operatore finanziario islamico, c’è pure il divieto di Haram, cioè l’obbligo a non investire in aziende che hanno un business in contrasto con le leggi coraniche, come i produttori di alcolici, di carne di maiale o di materiale pornografico.

LE ORIGINIQuesto complesso di regole morali affonda dunque le proprie radici in una tradizione secolare che arriva direttamente dal profeta Maometto. Il Corano, come hanno evidenziato gli studiosi Rony Hamaui e Marco Mauri, nel loro saggio Economia e Finanza Islamica (edizioni il Mulino, 2009), non è infatti soltanto un testo teologico ma contiene anche una serie di prescrizioni in materia economica (sul commercio, sui debiti o sulle successioni ereditarie) che devono essere seguite da ogni fedele. Si tratta naturalmente di enunciazioni generali che sono state poi perfezionate attraverso altre fonti della religione musulmana come la Sunna (cioè gli atti e i detti del profeta) oppure la Qiyās, l’analogia giuridica basata sulla deduzione, con cui un giureconsulto musulmano (faqīh) interpreta la dottrina, nel caso in cui alcuni contenuti della Shari’a non siano sufficienti per dare una risposta a un determinato problema della giurisprudenza. Da tutte queste fonti, sono nati appunto diversi precetti etici validi anche per il mondo del business e che stanno alla base di un sistema economico e finanziario alternativo (o almeno un po’ diverso) rispetto a quello occidentale. A ben guardare, però, le origini ufficiali della finanza islamica vengono di solito fatte risalire dalla storiografia a una data relativamente recente: l’anno 1963, quando l’economista Ahma-dal-Najjar fondò la cassa di risparmio di Mit Ghamr (un piccola cittadina rurale egiziana) che è passata alla storia come il primo istituto bancario che ha creato prodotti creditizi e d’investimento conformi alla Shari’a.

LA RINASCITA POST-COLONIALELa finanza islamica come la conosciamo oggi, insomma, ha appena 50 anni di vita. E allora, viene da chiedersi, perché un sistema di valori che ha una tradizione secolare alle spalle è stato applicato al mondo del business soltanto così di recente? A ben guardare, quella del 1963 è stata per la finanza islamica una rinascita, più che una vera e propria origine dal nulla. Nel periodo post-coloniale, infatti, molti Paesi musulmani che uscivano dalla dominazione delle potenze europee hanno cercato di riconquistare una propria identità culturale, valorizzando come elemento unificante della società proprio l’Islam, dove il credo religioso è molto più importante dell’appartenenza a una determinata nazione o a uno specifico ceto sociale. È proprio nel periodo post-coloniale che si è iniziato a parlare di politica islamica, di costituzione islamica, di economia islamica e, non da ultimo, anche di finanza islamica. Secondo Hamaui e Mauri, le genesi di questi concetti risale più precisamente all’India degli anni ‘40, durante la lotta contro la dominazione inglese. È in questo periodo che alcuni leader indipendentisti musulmani, fra i quali Abu Al Mawdudi, ritennero che la riconquista di una identità forte per tutte le comunità mondiali fedeli ad ad Allah fosse la l’obiettivo primario da perseguire, ancor più che la creazione di uno stato nazionale islamico nella penisola indiana (che fu poi effettivamente creato, con la nascita del Pakistan). Prima degli anni ‘40, dunque, i principi della finanza islamica non erano stati ancora codificati nella prassi quotidiana né adeguati alle esigenze della moderna società industriale, pur essendo già esistenti nella tradizione teologica. Poi, il risveglio religioso verificatosi nel mondo musulmano negli ultimi decenni ha cambiato le cose e ha portato alla riscoperta di certi valori che sembravano essersi contaminati nel corso della storia, dal VII secolo d.C. in avanti, con la progressiva decadenza dell’impero arabo.

MODELLO PER L’OCCIDENTE?Diversi studiosi oggi si chiedono se l’Europa e gli Stati Uniti, reduci dalla più grave recessione del Dopoguerra, possono davvero imparare qualcosa dal sistema di valori che “ruota” attorno alla Shari’a. Sono in molti a pensare di sì, almeno tra quegli osservatori che imputano le cause della recente crisi economica dell’Occidente soprattutto a due fattori: l’esplosione del debito (pubblico e privato) nei maggiori paesi industrializzati e l’ingigantirsi di una speculazione finanziaria sempre più scollegata dalle attività economiche reali e figlia del turbo-capitalismo di Wall Street, dove i soldi generano sempre altri soldi. In effetti, al dil à dell’aspetto puramente religioso, le regole della finanza islamica sembrano contenere gli anticorpi giusti contro queste storture del sistema, visto che proibiscono la speculazione fine a se stessa e l’utilizzo dei prodotti derivati, promuovono il controllo del rischio e la responsabilità sociale degli investimenti. Tutte cose che, se avessero ispirato maggiormente la comunità finanziaria internazionale negli ultimi anni, forse avrebbero evitato il crollo dei mercati e il crack del sistema bancario del 2007-2008, con le conseguenze disastrose che ha avuto.

SISTEMI COMPLEMENTARIValentino Cattelan, collaboratore per i temi di finanza islamica del centro di ricerca Ceis di Roma Tor Vergata, invita però a evitare qualche semplificazione di troppo. «È vero che la crisi dell’ultimo quinquennio ha origine in un sistema finanziario governato da logiche troppo speculative», dice Cattelan, «ma è bene non giungere a conclusioni affrettate». Innanzitutto, secondo il ricercatore di Tor Vergata, non va dimenticato che le banche che operano secondo la Shari’a, pur seguendo determinati principi etici, non sono certo enti di beneficenza. Più semplicemente, si tratta di istituzioni finanziarie che propongono una forma alternativa di remunerazione del capitale, a cui gli operatori economici e gli investitori italiani ed europei possono guardare con interesse, in un’ottica di diversificazione delle proprie attività. In altre parole, a detta di Cattelan, sbaglia chi pensa che i meccanismi della finanza islamica siano destinati a diventare dominanti anche nei Paesi occidentali. Al di là di qualsiasi considerazione che riguarda la sfera morale, esistono parecchie difficoltà tecniche, legate alla necessità di cambiamenti della legislazione, della regolamentazione sugli strumenti finanziari e sul sistema creditizio, soprattutto in un paese come l’Italia che ha un settore bancario ancora molto chiuso, in cui i prodotti di risparmio e d’investimento conformi alle leggi coraniche sono pressoché inesistenti. Infine, come sottolinea ancora Cattelan, va ricordato che alcuni principi di responsabilità sociale della finanza islamica non rappresentano poi nulla di particolarmente innovativo per noi italiani, poiché sono presenti da sempre anche nel codice etico di molte banche cooperative o delle mutue assicuratrici.

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