Troppi tavoli di crisi (aperti) al ministero

A dispetto dei primi timidi segnali di ripresa, sono oltre 150 le aziende in crisi del cui futuro imprenditori e sindacati discutono con il governo a fare da arbitro. E a fronte di qualche soluzione positiva, sembrano molte di più le situazioni di impasse. Vi spieghiamo perché e, con l’aiuto di alcuni esperti, cosa si potrebbe fare

Per gli operai della Fincantieri di Palermo, l’inverno ormai alle porte si preannuncia rigido. Ma la colpa non è del clima che, nel capoluogo siciliano, è solitamente più mite che nel resto d’Italia. A irrigidire l’inverno è in realtà la cassa integrazione, scattata agli inizi di novembre per ben 148 dipendenti della società e destinata a durare per circa tre mesi. Le commesse a Fincantieri, infatti, dovrebbero ripartire soltanto a febbraio 2016 e per gli stabilimenti siciliani dell’azienda (controllata dal ministero dell’Economia attraverso la finanziaria Fintecna), è attivo da tempo un tavolo di crisi presso il ministero dello Sviluppo economico (il Mise) guidato da Federica Guidi. Altro che occupazione in ripresa di cui parla il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Benché i dati dell’Istat certifichino, in effetti, una lenta diminuzione dei disoccupati, in tutta Italia ci sono ancora decine di fabbriche e di imprese, per lo più di grandi dimensioni e dei più svariati settori, che si trovano in affanno e che sono costrette a navigare a vista, in una situazione di crisi che stona con i toni rosei della narrazione governativa.

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LA MAPPA DEI LAVORIPer tutte queste realtà industriali in difficoltà, il Mise tiene aperti da tempo dei tavoli di crisi, in cui il governo si pone come parte terza nei vertici tra i sindacati e i rappresentanti aziendali, che si tengono periodicamente a Roma per studiare soluzioni a ogni singola vertenza. A coordinare i lavori, è una task force che lo stesso ministero ha creato da anni al proprio interno sotto la guida di Giampiero Castano, con un passato da sindacalista della Fiom-Cgil e da direttore del personale in importanti aziende nazionali come Olivetti. Nonostante la presenza di questa struttura ben organizzata, il ministero dello Sviluppo economico sembra abbastanza reticente nel comunicare all’esterno la propria attività. Interpellato da Business People, l’ufficio stampa del Mise ha, infatti, dichiarato gentilmente la propria indisponibilità a rilasciare dichiarazioni su queste vicende. Nulla da dire in più, rispetto al materiale informativo che da tempo è consultabile sul sito Web dello stesso ministero, dove in effetti c’è una vera e propria mappa delle crisi aziendali di tutta Italia, accompagnata dai verbali degli incontri che si tengono periodicamente a Roma. A questi documenti, si aggiunge poi l’ultima relazione che il Mise ha pubblicato online sulla propria attività di gestione delle crisi, svolta nel corso del primo semestre 2015. Tirando le somme, le statistiche aggiornate alla fine di settembre attestano la presenza di ben 154 tavoli ancora aperti presso il ministero guidato da Federica Guidi. «Secondo i nostri calcoli, i lavoratori coinvolti in queste vertenze sono più di 110 mila», dice Tiziana Bocchi, segretaria confederale della Uil, che ha creato da tempo un osservatorio sulle crisi aziendali e ha rielaborato tutti i dati ministeriali. Secondo Bocchi, gli italiani che si trovano alle dipendenze di un’azienda in difficoltà sono dunque «ancora tantissimi e testimoniano come la congiuntura negativa, che da troppi anni attanaglia il nostro Paese, continui quasi quotidianamente a colpire molte famiglie».

TRA SPERANZE E SCHIARITEA ben guardare, negli ultimi mesi c’è stato però anche qualche segnale positivo. Nel primo semestre del 2015, secondo l’ultimo report del ministero, la convocazione dei tavoli di crisi ha portato alla firma di 24 accordi per realizzare altrettante ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali, che coinvolgono un totale di 20 mila lavoratori. Tra queste, c’è per esempio quella che riguarda il gruppo Whirlpool, multinazionale degli elettrodomestici che ha acquisito negli anni scorsi la Indesit e che, nel 2014, aveva annunciato una lunga sfilza di esuberi. Con la convocazione del tavolo ministeriale, sono stati scongiurati più di 2 mila licenziamenti nello stabilimento di Carinaro (Caserta), grazie all’utilizzo di fuoriuscite volontarie e di trasferimenti incentivati. Inoltre, la multinazionale americana si è impegnata a non effettuare tagli agli organici per l’intera durata dell’attuale piano industriale, che terminerà nel 2018. Una schiarita, già dall’anno scorso, si è vista anche per la vertenza di Electrolux, altro marchio di elettrodomestici che, dopo una lunga trattativa, ha messo in cantiere un piano di investimenti di 150 milioni di euro in Italia, per scongiurare una montagna di esuberi. Nell’ultima convocazione del tavolo del ministero, la società ha dichiarato che gli investimenti dei prossimi mesi saranno anche maggiori di quanto inizialmente previsto e che lo stabilimento di Forlì, cioè uno tra quelli posseduti in Italia, sarà il primo a uscire dallo stato di crisi.

PURTROPPO ARRIVANO SEMPRE TARDI

STRUMENTO UTILE MA UN PO’ DATATO

GLI STALLINon tutti i tavoli ministeriali, però, hanno portato schiarite. Lo sa bene chi segue la vicenda delle acciaierie Ilva che, con i loro stabilimenti di Taranto e Cornigliano (Genova), perdono una media di 50 milioni di euro al mese e sono da tempo in amministrazione straordinaria, dopo il naufragio delle trattative con gli aspiranti compratori della cordata Marcegaglia-Arcelor-Mittal. Per adesso, nella vertenza non si vedono grandi schiarite, anche se il governo spera che il polo siderurgico torni in utile nel 2017 e che la capacità produttiva cominci a crescere già nel 2016. Non vanno benissimo le cose neppure nel Porto di Taranto, per il quale c’è stato un recente accordo presso il Mise che ha scongiurato 539 licenziamenti. A parte questo risultato positivo, sono però ancora molte le incognite sul futuro dello scalo, alla disperata ricerca di operatori e progetti di sviluppo. Vanno un po’ meglio le cose, invece, nel sito produttivo siciliano di Termini Imerese, in Sicilia, dove un tempo c’erano gli stabilimenti della Fiat. Dopo una lunghissima fase di impasse, dovrebbe finalmente partire il progetto di Blutec (azienda del gruppo Metec), che ha intenzione di creare un nuovo sito produttivo per la fabbricazione di veicoli ibridi. I ritardi nella realizzazione di questo programma destano però ancora molte preoccupazioni tra i sindacalisti.

UN PROBLEMA È CHE

IL MANCATO RISPETTO

DEGLI ACCORDI PRESI

NON HA ALCUNA

CONSEGUENZA SANZIONATORIA

LIMITI PRINCIPALINon sempre, insomma, i tavoli ministeriali riescono a centrare velocemente e pienamente i propri obiettivi. Ad ammetterlo è lo stesso Mise che, nell’ultima relazione semestrale sulle attività di gestione delle crisi, individua due limiti nelle procedure adottate finora. In particolare, i tecnici rilevano che i tavoli di crisi si basano su un «processo non cogente», cioè che non prevede alcun obbligo effettivo per le parti che raggiungono un’intesa, che si tratti della proprietà, di eventuali aspiranti compratori o delle organizzazioni sindacali. Il mancato rispetto degli accordi, dunque, fa semplicemente fallire il salvataggio dell’azienda, senza alcuna conseguenza “sanzionatoria” per chi non ha tenuto fede alla parola data in precedenza. Sarebbe dunque meglio studiare procedure un po’ più vincolanti che non sembrano però facili da introdurre, a meno che non vengano approvate nuove leggi in materia. Inoltre, non va dimenticato che la gestione dei tavoli si basa su una metodologia di lavoro comune per tutte le vertenze e articolata in quattro fasi. Nella prima viene acquisita la disponibilità a trattare da parte dell’azienda in crisi che, assistita spesso dalle associazioni di categoria, cerca anche la disponibilità di eventuali partner o compratori delle unità produttive in difficoltà. Poi vengono coinvolte le organizzazioni sindacali per dare il via alle trattative e anche le istituzioni pubbliche, per esempio i Comuni e le Regioni, affinché facciano tutto quanto in loro potere per il salvataggio e la ristrutturazione dell’impresa. Se c’è bisogno di sostenere dei processi di formazione o riqualificazione dei dipendenti, per esempio, gli enti locali possono fare la loro parte, visto che gestiscono le politiche del lavoro sul territorio. Stesso discorso se c’è bisogno del via libera delle istituzioni locali per qualche ristrutturazione immobiliare dei siti produttivi in crisi. Una volta completati questi passaggi, si arriva alla stesura di un vero e proprio accordo con il placet del ministero. Infine, presso una delle istituzioni coinvolte nelle trattative, viene creata una cabina di regia che monitora come si evolvono le situazioni di crisi, mentre il tavolo continua a riunirsi periodicamente al Mise per fare il punto della situazione. Le procedure sono dunque ben architettate, almeno sulla carta. «Purtroppo, però», dice Bocchi, «negli ultimi anni sono venuti sempre più a mancare elementi importantissimi per il buon esito delle ristrutturazioni: le leve della politica industriale». Con un bilancio pubblico sempre più a secco, a detta della sindacalista della Uil, i vari governi hanno infatti spesso rinunciato a mettere mano al portafoglio per stimolare gli investimenti pubblici e privati. Solo con la buona volontà, insomma, non si va troppo lontano. E così, anche molti tavoli di crisi ministeriali rischiano di fare poco più del minimo indispensabile.

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