Rinascimento in vista per l’Italia

Smettiamola di piangerci addosso... Negli ultimi 15 anni l’industria italiana ha posto le basi per una potenziale crescita economica, puntando più sulla qualità che sulla quantità, distinguendosi in settori ad alta specializzazione

«La missione del­l’Italia», sostene­va Carlo Maria Ci­polla, storico del­l’economia scom­parso nel 2000, «è produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo». Chis­sà cosa penserebbe nel vedere l’Italia di oggi, reduce da una crisi economica che ha provocato un crollo del pil di oltre il 9% in un quinquennio. Probabilmente non avrebbe cambiato idea. Anzi, lo stu­dioso avrebbe forse individuato i germo­gli di un nuovo Rinascimento industriale, dopo una recessione che non si era mai vista prima, dal dopoguerra in poi.

COME È CAMBIATA LA PRODUZIONE TRICOLORECerto, le difficoltà del Sistema-Paese sono ancora tante, troppe. Ma, ne­gli ultimi 15 anni, l’industria del made in Italy ha subito una trasformazione si­gnificativa che potrebbe aprire la strada (anche se il condizionale è d’obbligo) a un ciclo virtuoso di crescita economi­ca nei decenni a venire. Per render­sene conto, basta confrontare i dati sulla bilancia commerciale del 1995 con quelli del biennio 2011-2013. In circa tre lustri, l’Italia ha mantenuto la propria posizione di grande espor­tatore e oggi ha un surplus commercia­le manifatturiero superiore ai 100 miliardi di euro. Soltanto la Cina, il Giappone, la Corea del Sud e la Germania fanno altrettanto, men­tre le altre potenze economiche globali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna sino alla Francia, presen­tano un dato pesantemente nega­tivo. Inoltre, da quando è entra­to in vigore l’euro, molte imprese hanno smesso di far leva soltan­to sul fattore-prezzo per competere con l’industria straniera, non potendo più contare sulle ripetu­te svalutazioni della lira. Così, il sistema manifatturiero si è spostato da prodotti di qualità medio-bassa a produzioni di alta gamma. Oggi, per esem­pio, l’Italia non è più un grande esporta­tore di abbigliamento e calzature a bas­so costo, bensì di vini pregiati, di pro­dotti agroalimentari di qualità, di beni di lusso o vestiti griffati, ma soprattutto di macchine agricole, di mezzi di traspor­to (automobili escluse) e di macchinari per l’industria, spesso disegnati su misu­ra per le grandi fabbriche straniere. Nel 2012-2013 l’export della meccanica ita­liana è stato pari al doppio di quello realizzato complessivamente nei settori tes­sile, abbigliamento, pellame e calzature.

COMPARTI IN SALUTEAnche altri comparti, nell’ultimo quinquennio hanno avuto perfor­mance da capogiro. È il caso della far­maceutica, in cui l’Italia, nei decenni scorsi, non ha brillato particolarmente, ma di cui oggi siamo secondo produtto­re in Europa, con un fatturato annuo di 25,7 miliardi di euro (di cui il 70% esportato), alle spalle della Germania (26,4 miliardi), ma ben al di sopra della Francia (20,2 miliardi), della Gran Bre­tagna (19,6 miliardi) o della Spagna (14 miliardi). Tra il 2008 e il 2013, l’export di medicinali made in Italy è cresciu­to complessivamente di oltre il 64%, più del doppio della media Ue. Sono dati che gli enti di ricerca economica Fon­dazione Edison e Fondazione Symbola conoscono bene e hanno portato spes­so all’attenzione dell’opinione pubbli­ca, per smentire i luo­ghi comuni sul declino del Paese. Per entram­be le fondazioni, i pro­blemi dell’Italia vanno ricercati al suo interno, nell’inefficienza dei servizi pubblici e del­la burocrazia o in un sistema fiscale avverso a chi fa business, così come nella dipendenza dall’estero per le materie prime, dovuta ai pochi sfor­zi compiuti dai governi per raggiungere l’autosufficienza energetica. Non a caso, le importazioni di minerali e commodity energetiche, come petrolio e gas, sono una pesante zavorra per la nostra bilan­cia commerciale, con un saldo negativo di circa 70 miliardi, oltre cinque volte in più rispetto al 1995.

Dove siamo competitivi (o lo stiamo diventando)

NUMERI DA PRIMATOPer gli analisti di Symbola e del­la Fondazione Edison, dunque, me­glio mettere da parte la retorica e cerca­re piuttosto i “germogli” di un nuovo Ri­nascimento industriale. Oltre ai setto­ri sopra ricordati, infatti, ve ne sono al­tri in cui il nostro sistema produttivo ini­zia a mostrare o ha conservato nel tem­po un certa vitalità. L’Italia, per esempio, è la terza nazione europea per numero di aziende biotecnologiche, alle spalle della solita Germania e della Gran Bretagna; è prima nel Vecchio continente in alcuni segmenti della robotica (come quella applicata al settore automobilisti­co), ha un’industria delle nanotecnolo­gie ancora in fase di sviluppo dando la­voro a oltre 4 mila persone. Ma è an­che settima potenza mondiale nel settore dell’aerospazio, con circa 50 mila addetti e un fatturato annuo attorno a 13 miliardi di euro. Senza dimenti­care gli investimenti fatti nella green economy dalle aziende del made in Italy che, in rapporto ai ricavi gene­rati, hanno il tasso meno elevato di emissioni di anidride carbonica nell’at­mosfera: 104 tonnellate di CO2 per ogni milione di euro prodotto, contro le 143 della Germania. Infine, non va dimenti­cato il turismo. Benché non sia più lea­der per numero di arrivi dall’estero, l’Ita­lia è comunque seconda dopo la Spa­gna per quantità complessiva di per­nottamenti di turisti stranieri ed è prima nel segmento dei viaggiatori extraeuro­pei, provenienti non solo dal Giappone e dagli Stati Uniti, ma anche da nazioni emergenti come la Cina e il Brasile. Se è dunque vero che nel Paese dei campa­nili si fanno cose belle, come sosteneva Cipolla, ci sono milioni di persone pron­te a salire su un aereo per vederle.

La bellezza ci ha sempre salvato e ci salverà ancora

Diciamo all’Europa cosa siamo stati capaci di fare

NUOVE GEOGRAFIE Le tante aziende d’eccellenza italia­ne che possono diventare protagoni­ste di un nuovo Rinascimento industria­le sono state citate in un documento re­datto lo scorso anno dalla Fondazione Symbola in collaborazione con la Fon­dazione Edison e Unioncamere, Le nuo­ve geografie del made in Italy. Quasi tut­te ruotano attorno ai vecchi distretti im­prenditoriali che, negli ultimi 15 anni, si sono rigenerati per adeguarsi alle sfide della globalizzazione. È il caso del polo fiorentino del lusso, dove tante picco­le e medie aziende di pellame per abbigliamento hanno abbandonato la produ­zione in proprio per inserirsi nella rete di subfornitura delle grandi griffe, da Gucci a Prada a Ferragamo, attirando anche gli americani Ralph Lauren, Donna Karan e Tommy Hilfiger. Un contributo fonda­mentale alla crescita dell’export è arri­vato però dalla meccanica, meno cono­sciuta delle tradizionali icone del made in Italy e trasformatasi nel cuore pulsan­te della nostra industria. Una delle nic­chie di eccellenza è senza dubbio il seg­mento dei macchinari per il confezio­namento dei prodotti di largo consu­mo (packaging), che ha il suo fulcro lun­go la via Emilia, in un distretto in cui si trovano 170 imprese produttrici, tra cui spiccano la Mc Automations di Casalec­chio sul Reno, la Imball di Sasso Marco­ni, la bolognese Coesia o la imolese Sac­mi. Non vanno dimenticati i distretti del­la meccatronica, come quello piemonte­se con 196 aziende, tra cui Prima Indu­strie, Fiedo e Comau. Un altro distretto della meccatronica si trova al Sud, in Pu­glia, dove spicca Mermec, numero uno al mondo nella diagnostica e nella ma­nutenzione ferroviaria.Sempre al Sud, ci sono eccellenze nel comparto dell’aero­spazio dove, oltre ai grandi player inter­nazionali come Alenia Aeronautica, Tha­les Alenia Space, Avio, Selex Galileo e Microtecnica, si sono sviluppate realtà di medie dimensioni attive su scala in­ternazionale. È il caso della napoleta­na Magnaghi Aeronautica o della Avio­gei di Latina, che produce apparecchia­ture per aeroporti con commesse in tut­to il mondo. Non mancano esempi an­che nel Centro Italia, come Umbro Cu­scinetti di Perugia, specializzata nella produzione di componenti per la stabi­lizzazione degli aerei. Se a questi nomi si aggiungono poi le start up o di me­die aziende attive in settori innovativi come le nanotecologie e le biotecnolo­gie, la robotica o la produzione di com­ponenti elettronici, il quadro del tessuto imprenditoriale italiano appare tutt’altro che sconfortante. Altro che declino, qui ci sono davvero le basi per un Rinasci­mento industriale.

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