Produttività: cosa manca all’Italia e come si può rimediare

È inutile parlare di smart working, Pil, redditività delle imprese, e quindi del lavoro, se la performance italiana è da tempo decisamente più lenta di quella degli altri Paesi occidentali

C’è poco da semplificare quando si parla di produttività: dire “valore aggiunto per ora lavorata” resta pur sempre l’immagine più nitida, perché mette a fuoco i due fattori chiave che danno sostanza al concetto. L’Istat, che la misura con cura, ha da poco rilasciato i dati del 2020 – misurati anche nel lungo arco temporale che va dal 1995 – tenendo a chiarire che il dato è utile anche ai fini di una valutazione della performance economica del Paese Italia rispetto ai contesti internazionali. Chi ne riduce al massimo il significato descrive la produttività come il più importante fattore di crescita, che resta comunque un modo semplicistico rispetto alle tante valenze e ai tanti contesti con cui la parola deve fare i conti nel mondo delle imprese.

Qualche spartiacque va messo per forza. Intanto, almeno per fissare il primo, bisogna capirci se parliamo di imprese o di servizi, perché già questo regala uno sguardo diverso sulla produttività non solo nelle premesse ma soprattutto nei risultati: è vero, infatti, che nel decennio precedente all’attuale (2012- 2019) i settori industriali hanno segnato uno stacco in avanti secondo i dati Ocse (gli Stati Uniti su tutti, seguiti in Europa da Regno Unito, Germania e Francia e con l’Italia smarcata di parecchie lunghezze). Percorso totalmente inverso, però, è stato registrato per il settore dei servizi, dove gli economisti sono unanimi nell’attribuire le ragioni del ristagno alla eccessiva regolamentazione e burocratizzazione, almeno per quello che riguarda il ritardo italiano. Dietro i numeri c’è sempre molto altro ma raramente politica e informazione ne danno conto: capire come si calcola la produttività del lavoro aiuta a farsi idee più chiare. Le misure di produttività sono calcolate partendo dai dati di contabilità nazionale, che vengono disaggregati per tipo di attività economica. Ci sono ovviamente degli esclusi nel totale: su tutti, le attività di locazione di beni immobili, le attività del personale domestico e le attività economiche derivanti dalle amministrazioni pubbliche e dalle organizzazioni internazionali. Questo chiarimento sul lordo e sul netto andava fatto, per quanto la produttività legata al “pubblico” meriterebbe lunghe e meditate riflessioni. Ecco che i dati Istat tirano pertanto le somme del 2020 calcolandole su settori che coprono circa il 71% del valore aggiunto complessivo in Italia e con un 83% del totale delle ore lavorate.

La chiave è la technology infusion

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La fotografia generale è esaustiva, andiamo nel dettaglio. A dicembre 2021 l’Istat ha fatto i conti sull’anno precedente, quindi in piena fase pandemica: «La dinamica positiva della produttività segue un lungo periodo di crescita molto lenta con un +0,5% di media negli anni che vanno dal 2014 al 2020. Tra il 2009 e il 2014 la produttività del lavoro era cresciuta, in media, dello 0,9%. Nel periodo più recente (2014-2020) la dinamica negativa delle ore lavorate e del valore aggiunto è stata accompagnata da una dinamica positiva dell’input di capitale: la diminuzione media delle ore lavorate (-1,3%) è cioè risultata maggiore di quella media del valore aggiunto (-0,8%) con un effetto crescita della produttività del lavoro appunto pari a un +0,5%».

Ma la produttività non è solo quella del lavoro, c’è anche quella del capitale: l’altra faccia della luna misura, cioè, il grado di efficienza degli investimenti immessi nel settore produttivo. Fino a un paio di decenni fa l’occhio delle imprese cadeva quasi esclusivamente sulle voci Ricerca e Sviluppo, ora sono invece diventati gli investimenti in ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione), tanto quanto quelli da destinare alla produzione di brevetti e proprietà intellettuale, i marcatori a cui dare peso. Fatta la premessa, il dato Istat 2020 dice che il calo della produttività di capitale ha segnato un -1,1% sempre calcolato sull’asse temporale dal 2014, in linea perfetta con quanto già accadeva dal 1995 (sempre -1,1%): insomma una stagnazione a dir poco preoccupante che dura da quasi 30 anni.

Ecco l’Italia della produttività che ovviamente ha due vie di miglioramento a seconda che si voglia incidere sul fattore tempo (diminuire le ore lavorate) o sul fattore capitale (aumentare l’investimento); la terza via accontenta il cerchio e la botte intervenendo in modo equilibrato su entrambi.

Un confronto con l’Ue

Proprio perché l’Istat rimarca quanto la produttività decodifichi anche la via di un posizionamento internazionale, vale la pena leggere i dati di altri Paesi almeno in ambito Ue (fonte Eurostat 2021): siamo in coda ancora una volta quando si parla di lavoro in ogni sua espressione. Se il dato medio del resto dell’Europa a 27 Paesi è stato del +1,5%, chi ha visto salire la produttività in modo più significativo rispetto a noi sono state le solite Francia (1,2%) e Germania (1,3%). La Spagna, simile a noi, ha toccato appena un +0,4%. Anche i settori produttivi offrono buoni spunti di analisi comparata. Le differenze più marcate si registrano nei comparti dei servizi di amministrazione e supporto alle imprese, nelle attività professionali tecniche e scientifiche e nei servizi di informazione e comunicazione: oltre la metà dei comparti del terziario ha visto una crescita media annua della produttività del lavoro nel ventennio pre-pandemico totalmente negativa per l’Italia e positiva per gli altri dell’Eurozona, con scarti tra l’1% e il 2%. Diverso il discorso per i comparti Alloggio e ristorazione – affaticati sia in Italia che all’estero. Ancora una volta i dati post pandemia tracciano chiaro lo stato di buona salute generale per il settore Finanziario e assicurativo, per quanto anche lì il livello di produttività del lavoro sia ancora in affanno rispetto al benchmark Ue. Dire Europa assume sempre più un senso di astrazione se non facciamo ricadere a terra, e se non guardiamo negli occhi, i chilometri di distanza culturale del lavoro che ci separano ogni anno, e ogni decennio, da quei cugini come Francia e Germania a cui eravamo legati per rami di parentela diversi ma credibili. Siamo in ritardo su tutto, a quanto pare.

Riduzione dell’orario e smart working: quali effetti?

Nel mondo delle imprese, ma anche nel dibattito pubblico sempre asfittico, finisce che certi luoghi comuni indiscutibilmente basati su verità non vengano presi sul serio come meriterebbero. Pensiamo alla riduzione dell’orario di lavoro che, da un punto di vista pratico e concreto, di fatto non incide sull’aumento del numero di occupati, ma che una leva sull’aumento della produttività invece la esercita e come. Ma a che livello? A dire il vero sono tre i piani su cui agisce: il primo è fisiologico, il secondo motivazionale, il terzo organizzativo. È il terzo che merita una riga in più, gli altri due sono facilmente intuibili: meno si lavora, più l’impresa è costretta a rivedere in meglio la sua vita interna per fare in modo che non si sprechi nulla e che tutto vada nella direzione del risultato finale come vantaggio collettivo, che vuol dire sia aziendale che individuale. A chi ancora sostiene che bisognerebbe tornare in fretta a rioccupare gli uffici, le sedi e le città come prima della pandemia – rinnegando le migliori potenzialità dello smart working – andrebbero ricordati questi tre aspetti: lavorare meno, lavorare meglio, lavorare ovunque. Non è un caso che i trend rilevati dai principali osservatori manageriali per il 2022 rispetto al 2021 testimonino già una sensibile variazione, in positivo, sulla reciproca fiducia tra manager e collaboratori da remoto: dopo due anni abbiamo accelerato processi inimmaginabili fino al 2019 e già è possibile misurarne i vantaggi, figuriamoci se mettessimo stabilmente la fiducia al centro delle organizzazioni aziendali e se, ma questa è solo una provocazione, finisse persino dentro i bilanci dei valori intangibili. Rimodulare gli orari e le sedi di lavoro in nome della fiducia (e anche della produttività) è il vangelo di questo decennio: chi non ne vede il vantaggio sociale ed economico rischia grosso.

Nel suo libro In-dipendenti (Rubbettino, 2020), Marco Bentivogli già in premessa spiegava l’urgenza di ripulire le imprese dalle non poche forme di dipendenza su cui si reggono da decenni: «Le organizzazioni e le imprese che creano dipendenze sono nocive, ingabbiano le energie migliori degli esseri umani. Per questo avere lavoratori in-dipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale». Per poi, sempre in quello stesso libro, riportare un aneddoto curioso legato a un amministratore delegato che, non potendo andare a un concerto in cui si sarebbe eseguita la celebre sinfonia Incompiuta di Schubert perché impegnato in un consiglio di amministrazione, decide di mandarci il giovane capo del personale. Il giorno dopo gli chiede se il concerto gli fosse piaciuto e il manager gli fa trovare una relazione sulla scrivania, dettagliatissima, qualche ora dopo.

Un aneddoto esilarante se si pensa che nella relazione gli faceva notare come ci fossero state pause troppo lunghe degli oboi, mentre gli altri strumenti suonavano senza interruzione, come i violini ripetessero la stessa nota per troppo tempo, come gli ottoni ricalcassero inutilmente le melodie degli archi. Per concludere che, se avessero seguito le sue indicazioni su esecuzione e produttività, quella celebre opera non sarebbe stata un’incompiuta. La metafora coi lavoratori in azienda è fortissima e il rischio che si corre nel guardare soltanto al fattore tempo, invece che al fattore qualità misto a fiducia, è troppo alto.

C’è da augurarsi che nel 2022 continui ad aumentare la flessibilità, cioè orari di lavoro che si fanno variabili in funzione degli obiettivi. Che poi, sempre prendendo a parametro i dati Ocse, la controdeduzione più evidente è che le nazioni più ricche e produttive sono quelle in cui si vive lavorando meno ore. È tempo di prendere in mano con più coraggio la gestione delle imprese. Ultimo aspetto e non è un segreto, anche se non arriva quasi mai alla luce dei dibattiti: la eccessiva dipendenza delle pmi dal finanziamento proveniente dal canale bancario. C’è da sbrigarsi per fare in modo che giungano risorse aggiuntive da canali alternativi, cioè canali che investono in un’economia reale del Paese e non su un Paese fittizio, impalpabile, inesistente. Il lavoro grida sostegno per le imprese, per i territori, per le infrastrutture. Soprattutto per le persone.

Articolo pubblicato su Business People di settembre 2022

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