Privatizzare o non privatizzare, questo è il problema

La tentazione di dismettere parte del patrimonio statale per ripianare il debito pubblico e snellire diversi mercati italiani ormai in fase di stallo è forte. Ma sui progetti futuri pesano le leggerezze del passato. Sul piatto ci sono 370 miliardi, eppure per molti il gioco non vale la candela…

Il premier Enrico Letta e il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, per mesi hanno studiato bene le carte e sono giunti a una conclusione: l’autunno del 2013 è la stagione giusta per far maturare uno dei più importanti progetti messi in agenda dal governo, fin dal giorno del suo insediamento. Si tratta di un grande piano di privatizzazioni di immobili e partecipazioni pubbliche, che l’attuale esecutivo vuole attuare con uno scopo ben preciso: portare nelle casse dello Stato un tesoretto di diverse decine di miliardi di euro e ridurre così il peso enorme del debito pubblico italiano (che da tempo ha superato la soglia record dei 2 mila miliardi di euro). È un programma ambizioso, quello di Letta, che forse mal si concilia con le tensioni all’interno della strana maggioranza Pd-Pdl nata dopo il terremoto elettorale del febbraio scorso. Tuttavia, qualunque sia il destino del governo, per alcuni osservatori la vendita del tesoretto dello Stato resta ancora una tappa obbligata, se si vuole davvero dare una scossa all’economia italiana, renderla più dinamica e liberarla in parte dalla zavorra dell’indebitamento. La pensano così gli economisti dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl), centro di ricerca di forte orientamento liberale, che da tempo ha elaborato una stima sulla potenziale cifra che il ministero dell’Economia potrebbe incassare, mettendo sul mercato i propri “gioielli”. La somma complessiva è di 270 miliardi di euro, di cui circa la metà è costituita da quote di aziende controllate o partecipate dal ministero dell’Economia, mentre il restante 50% è rappresentato da immobili di proprietà della pubblica amministrazione o destinati nei decenni scorsi ai piani di edilizia residenziale agevolata. Altri 30 miliardi arriverebbero invece dalla vendita delle partecipazioni detenute dagli enti locali nelle imprese ex municipalizzate, oggi attive per lo più nel settore energetico, che è ormai completamente liberalizzato. Se tutto questo immenso patrimonio di edifici e di società venisse dismesso, lo Stato risparmierebbe ogni anno circa 11 miliardi di euro di interessi passivi (si vedano le tabelle), sul proprio debito. Non si tratta di una cifra enorme ma, secondo gli analisti dell’Istituto Bruno Leoni, è quanto basta per dare una svolta alla politica economica del nostro Paese. Non tutti concordano però con questa posizione e agitano uno spauracchio: il ripetersi di quanto avvenuto alla metà degli anni ‘90 del secolo scorso, quando i primi governi della Seconda Repubblica, (a partire da quello di Amato del 1992) avviarono un grande ciclo di privatizzazioni durato più di due lustri. Per diversi osservatori, quella vendita dei gioielli di Stato si è rivelata di fatto un buco nell’acqua: non ha portato a una riduzione del debito pubblico e, per giunta, ha pure indebolito l’industria nazionale, esponendola alla rapacità della speculazione finanziaria. Chi ha ragione e chi ha torto? I fautori delle privatizzazioni o i loro avversari? Per Emilio Barucci, professore di Matematica al Politecnico di Milano e autore con Federico Pierobon del saggio Stato e mercato nella Seconda Repubblica (edizioni il Mulino), la verità sta probabilmente nel mezzo. Nel loro libro, Barucci e Pierobon analizzano gli effetti delle privatizzazioni avvenute nei due decenni scorsi, evidenziando come abbiano dato un contributo importante, benché non decisivo, alla riduzione del debito pubblico, portando nelle casse dei vari governi un tesoretto di quasi 150 miliardi di euro. Tuttavia, benché negli anni ‘90 il ruolo dell’industria pubblica fosse diventato ingombrante e fonte di sprechi e inefficienze, va riconosciuto che il piano di vendita delle partecipazioni statali non ha raggiunto lo scopo che si era prefissato: quello di trasformare l’Italia in un Paese, più dinamico, con migliori infrastrutture, più produttivo e appetibile per gli investitori internazionali. Proprio per questa ragione, secondo Barucci le privatizzazioni del futuro dovranno essere attuate in maniera selettiva, «in modo che l’azionista pubblico mantenga posizioni importanti in certi settori e in alcune aziende strategiche per l’economia nazionale come Enel, Eni o Finmeccanica». Il guaio è che le imprese menzionate dal professore del Politecnico sono quelle più facilmente vendibili nel breve periodo, visto che sono quotate in borsa. Molto più difficile sarà invece per il governo portare sul mercato il tesoretto da 90 miliardi di euro rappresentato dalle società non quotate, molte delle quali hanno bisogno di un processo di ristrutturazione, riorganizzazione o addirittura di un risanamento. È il caso delle Ferrovie dello Stato o di Poste Italiane, mentre più facile appare la vendita di altre aziende come Sace, gruppo specializzato nella fornitura di prodotti assicurativi che vale 6,4 miliardi di euro. Altri problemi si intravedono all’orizzonte nella possibile vendita degli immobili pubblici. Nella scorsa legislatura, il governo Monti aveva elaborato un piano per attuare 100 miliardi di dismissioni in cinque o sei anni, che però sono rimaste finora lettera morta. Qualche mese fa, si è fatta invece strada in Parlamento l’ipotesi di creare una società-veicolo, in cui far confluire quegli immobili pubblici che sono difficilmente vendibili nel breve termine, perché hanno bisogno di essere riqualificati o di un cambiamento nella destinazione d’uso. Le quote di questa nuova realtà verrebbero poi acquistate in un momento successivo da investitori istituzionali come le banche, le fondazioni o le compagnie assicurative, per un valore totale di oltre 200 miliardi di euro, da destinare appunto alla riduzione del debito. Anche in questo caso, però, si tratta di progetti non facili da attuare poiché gran parte degli immobili pubblici è di proprietà degli enti locali, che difficilmente saranno disposti a farsi portar via dal governo una fetta del patrimonio.

CHI DICE NO

CHI DICE SÌ

CHI DICE NÌ

Giulio SabelliSaggista e professore di Storia economica all’Università di Milano

Carlo StagnaroResponsabile del dipartimento di studi e ricerche dell’Istituto Bruno Leoni

Paolo Cirino PomicinoMinistro del Bilancio fino al 1992

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