La nuova corsa all’oro

Gli esperti non hanno dubbi: dietro alla crescente richiesta da parte di stati e investitori privati del bene rifugio per eccellenza, ci sarebbe la minaccia di una recessione da far impallidire quella del 2008

Non si vedono carovane di cercatori di fortuna solcare le immense pianure americane, ma quella in atto è una nuova corsa all’oro e per capirne le entità non servono immagini particolari, bastano le cifre. Nei primi sei mesi dell’anno, gli acquisti delle banche centrali di tutto il mondo del metallo prezioso hanno raggiunto i 15,7 miliardi di dollari, irrobustendo un trend che dura da un anno e che ha portato a una crescita verticale del suo valore. Il prezzo di un’oncia d’oro è passato dai 1.200 dollari del 6 settembre 2018 ai 1.505 toccati esattamente un anno dopo e verosimilmente crescerà ancora. A guidare la corsa, come detto, sono le banche centrali, soprattutto quelle dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Per esempio, dietro l’impennata del valore dell’oro nel primo semestre, ci sono gli ordini partiti da quella russa, cinese e polacca, che da sole hanno comprato 374 tonnellate di lingotti. Ma anche Paesi come India, che insidia da vicino il primato cinese, Kazakhstan e Turchia sono estremamente attivi. Il ritorno in piena forma del mercato indiano della gioielleria e il conseguente aumento degli ordinativi da parte degli orafi locali spiega solo in parte il processo in atto, che ha ragioni e implicazioni molto più profonde. Perché l’oro non è un bene normale. Questo metallo è considerato il bene rifugio per antonomasia, una sorta di comfort food del sistema economico mondiale, secondo una folgorante definizione data dal New York Times. Ed esattamente come ci si rimpinza di gelato e Nutella per smaltire una crisi amorosa o un’altra amara delusione, questa corsa all’oro potrebbe essere spiegata da un’altra crisi con una sola, fondamentale, differenza: piuttosto che essere alle spalle, quest’ultima potrebbe essere ancora davanti a noi. In parole povere, gli operatori economici internazionali starebbero mettendo fieno in cascina perché si aspettano un inverno particolarmente rigido. Sui mercati potrebbe infuriare una tempesta da incubo, a breve. E la storia recente dimostra che l’aumento del valore dell’oro è inversamente proporzionale alla fiducia che si respira nelle piazze finanziarie. Non è sempre stato così.

Storicamente, l’oro si è affermato come un mezzo di scambio, ma anche come una riserva di valore. Questo ruolo speciale fu ufficializzato nel 1821 dall’Inghilterra, dove nacque il Gold Standard, quando la sterlina venne ancorata all’oro. Questo significava che il possesso della divisa britannica poteva essere convertito in possesso del metallo prezioso. Se Londra voleva aumentare l’offerta di moneta, doveva stare attenta ad avere i forzieri pieni a sufficienza. Era un modo per stabilizzare la propria valuta che presto divenne mainstream. Tutte le monete erano legate all’oro in base a un tasso di cambio preciso, ciò aumentava la fiducia e faceva bene al commercio. Questo assetto fu mantenuto in una versione riveduta e corretta anche nei famosi accordi di Bretton Woods, in seguito ai quali i vari Paesi ancorarono la propria valuta al dollaro, che a sua volta veniva agganciato all’oro, al cambio di 35 dollari per oncia. Un equilibrio del genere poteva durare solo finché gli Usa si fossero trovati ad avere un vantaggio schiacciante sulle altre economie. Ma la crescita economica post II Guerra Mondiale di nuovi player come il Giappone e di altre economie occidentali ridusse il vantaggio americano, mandò in rosso la bilancia commerciale Usa e costrinse Washington a sganciare il dollaro dall’oro. Questo accadeva nel 1971. Da allora l’oro smise di essere uno strumento di politica economica e divenne una sorta di bene di lusso fondamentalmente inutile. Per tutti gli anni 80 e 90, le banche centrali di tutto il mondo non fecero che liberarsi delle proprie riserve. L’afflusso d’oro sui mercati fu tale che nel 1999 si dovette ricorrere a un accordo che fissava i quantitativi vendibili anno per anno. La famigerata crisi delle Tigri Asiatiche del 1998 invertì questa tendenza. I lingotti tornarono a essere uno strumento per diversificare le proprie riserve: la quantità di oro posseduta dai vari istituti centrali è passata così dai 3 triliardi di dollari del 2000 ai 13 del 2014. Naturalmente, la crisi del 2007/2008 ha solo radicalizzato il trend, tanto che, secondo quanto riferito dal World Gold Council, nel 2012 sono state comprate 534,6 tonnellate d’oro, più di quanto comprato nei 50 anni precedenti.

Gli investitori privati, naturalmente, fiutano l’aria e si muovono di conseguenza. Guru della finanza come Ray Dalio (Bridgewater Associates), John Paulson (Paulson&Co) o John Tudor Jones II (Tudor Investment Corporation) consigliano apertamente agli investitori di detenere tra un 5 e un 10% delle proprie attività in oro. Da parte sua, il miliardario egiziano Naguib Sawiris nel 2018 ha cambiato in oro addirittura metà del suo patrimonio, stimato intorno ai 5,7 miliardi di dollari. Ma sono naturalmente gli Stati i player più interessanti. Qualcosa bolle in pentola da tempo. Per esempio, la Germania nel gennaio 2013 annunciò un’operazione di rimpatrio di 674 tonnellate di oro conservate a Parigi e New York. I lingotti non sono tutti uguali: variano per peso, colore e purezza. Ricatalogarli, controllarli e imbarcarli non è un’operazione semplice né economica. Ma anche in Francia ci sono state mozioni per rimpatriare al più presto il proprio tesoro, e la stessa inquietudine si è registrata anche in Italia, terzo Paese al mondo per riserve auree dopo Stati Uniti e Germania (quarto, se si contano anche quelle dell’Fmi, ndr). Allo stesso modo, non è sfuggito agli osservatori che la Russia, uno dei Paesi più a caccia d’oro, si stia liberando dei suoi investimenti in dollari, vendendo titoli del Tesoro Usa, con i cui proventi acquista il metallo prezioso, venduto da Paesi alla canna del gas come il Venezuela, che ha dilapidato le sue riserve. Anche Cina e India proseguono questa politica di de-dollarizzazione, così come Francia, Germania e Gran Bretagna. Ognuno ha i suoi motivi. A fine 2018 c’era la paura dello shutdown americano, ora si teme una nuova politica monetaria accomodante della Fed che farebbe calare il valore del dollaro. Poi ci sono la guerra dei dazi, le incertezze legate alla Brexit, la recessione tedesca che può mandare definitivamente KO la macilenta economia europea. La sensazione è che si compri oro in previsione di una tempesta di tale portata da far sembrare la Grande Recessione del 2008 una scampagnata.

© Riproduzione riservata