In fuga dall’Euro. O No?

L’idea di tornare alla vecchia lira è vista sempre meno come l’anticamera di una catastrofe comunitaria. Anzi, per alcuni è l’unica vera exit strategy dalla crisi che colpisce in particolar modo l’Italia. La questione però va ben oltre il semplice dualismo pro/contro. Ecco gli scenari possibili

Roma, palazzo del Quirinale, ore 20.30 del 31 dicembre 2001. Il presidente della Repub­blica in carica, Carlo Azeglio Ciampi, sa­luta l’imminente arrivo dell’euro che, di lì a poco, entrerà nelle tasche di milioni di italiani. «La moneta unica sarà un motore per far procedere l’inte­grazione dell’Europa», dice Ciampi parlando in Tv a reti unificate, nel suo consueto discorso di fine anno. A distanza di oltre due lustri da quella sera, però, le pa­role dell’ex-presidente risuonano purtroppo come una nota stonata. L’integrazione economica dell’Europa che Ciampi auspicava, infatti, oggi rimane ancora nel libro dei sogni, mentre l’Unione monetaria non scop­pia certo di salute, dopo essere finita più volte sull’orlo del crack nel corso dell’ultimo triennio. E così, tra gli economisti di tutto il mondo e nell’opinione pubblica del Vecchio continente, si è fatta strada un’ipotesi che fino a qualche anno fa sembrava quasi impensabile o, per meglio dire, era passata un po’ in sordina: per risol­vere i problemi di questa Europa, messa in ginocchio dalla più grave crisi economica del Dopoguerra, biso­gna mandare in soffitta la moneta unica e tornare alle vecchie valute nazionali.

FERMAMENTE CONTRARI. A dirlo non sono soltanto i politici anti-sistema come qualche simpatizzante del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, ma anche economisti di fama come Paolo Savona che, nel 1993, fu persino ministro dell’industria del governo Ciampi e contribuì all’ingresso dell’Italia nel­l’euro. L’abbandono della moneta unica, secondo Savona, è il solo modo con cui il nostro Paese può uscire dalla cri­si che lo attanaglia da anni ed evitare così una disoccupa­zione al 20%. Nel coro degli economisti anti-euro si trova­no però molti altri nomi illustri: c’è il premio Nobel statu­nitense Paul Krugman, secondo il quale la moneta unica ha il 50% di probabilità di scomparire nell’arco di un anno, oppure il suo collega Joseph Stiglitz, altro premio Nobel per l’economia che, sull’euro, ha ormai emesso una sen­tenza: «o cambia, oppure è meglio che muoia». Senza di­menticare, poi, altri studiosi italiani come Alberto Bagnai, professore di Economia politica all’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara e creatore del blog Goofy­nomics, che riscuote grandi consensi sulla Rete. Bagnai (considerato nei mesi scorsi un simpatizzante “gril­lino”, nonostante la sua smentita), ha pubblicato un sag­gio dal titolo abbastanza esplicito: Il tramonto dell’euro (Im­primatur Editore), in cui spiega perché, secondo lui, la na­scita della moneta unica è sempre stata un’operazione fal­limentare, fin dall’inizio. L’analisi del professore abruzzese parte da una semplice constatazione: se due Paesi con del­le economie molto diverse tra loro (come la Germania e l’Italia, oppure la Spagna), scelgono di adottare un sistema di cambi fissi e una moneta comune, si creano inevitabil­mente degli squilibri insanabili, analizzati scientificamen­te negli anni scorsi anche dall’economista argenti­no Roberto Frenkel (che studiò casi analoghi av­venuti in America Lati­na con le divise naziona­li e il dollaro). In pratica (riassumendo a grandi li­nee), accade che il Pae­se più ricco e produttivo, come la Germania, riesce a guadagnare competiti­vità nell’export, poiché le altre nazioni euro­pee non possono usare l’arma della svalutazione monetaria, per soste­nere i propri prodotti. Nello stesso tempo, con la nascita di una divisa comune, sul mercato dei capitali si verifica inizialmente un movimen­to di segno opposto: dai Paesi più ricchi, come appunto la Germania, gli investimenti finanziari inonda­no le nazioni economicamente più deboli, dove ci sono dei tassi d’inte­resse un po’ più alti e convenienti, rispetto a quelli della madrepatria. E così, le nazioni più forti diventa­no creditrici dei Paesi meno ricchi, i cui titoli del debito pubblico finiscono in gran parte in mani straniere. Tutto fila liscio, finché non si verificano degli shock per l’economia, come la crisi finanziaria internazionale del 2007-2008 o il crack della Grecia del 2010. In queste oc­casioni, i nodi arrivano improvvisamente al pettine: i capi­tali dei Paesi più ricchi, impauriti dall’instabilità dei mer­cati, iniziano a darsela e gambe e fuggono dalle nazioni più vulnerabili. Cominciano così dei fenomeni di squilibrio, come la “guerra degli spread” combattuta in Europa nel­l’ultimo triennio. In altre parole, sui titoli di Stato dei Pae­si più deboli si abbatte una pioggia di vendite, che fa crol­lare i loro prezzi sul mercato e fa crescere a dismisura i loro rendimenti, allargando gli spread, cioè i differenziali d’in­teresse con i buoni del tesoro delle nazioni più forti (come i Bund tedeschi). Questi ultimi vengono, invece, ricom­prati a man bassa dagli investitori, con una conseguente crescita delle loro quotazioni sul mercato e un forte calo dei loro rendimenti. Di conseguenza, le nazioni più vulne­rabili si trovano con le mani legate: dopo aver subito l’at­tacco della speculazione finanziaria, avrebbero bisogno di svalutare il proprio tasso di cambio, per rilanciare l’export e l’economia; ma, purtroppo, oggi non possono farlo, pro­prio perché appartengono all’area euro e si trovano imbri­gliate nelle maglie strette della moneta unica. Sono que­sti squilibri insanabili, secondo Bagnai, le cause principa­li della crisi di Eurolandia e non l’elevato debito pubblico dei Piigs, come invece pensa tuttora gran parte dell’opi­nione pubblica. E allora, visto che i problemi di Eurolan­dia sono strutturali, all’orizzonte c’è una sola soluzione: bi­sogna mettere da parte il sogno della moneta unica e tor­nare con i piedi per terra, cioè alle vecchie divise naziona­li, compresa la lira italiana.

RIVEDERE LE POSIZIONI. È un’opzione che non dispiace neppure a Claudio Bor­ghi Aquilini, docente di Economia degli intermedia­ri finanziari alla Cattolica di Milano, ex managing di­rector di Deutsche Bank e scrittore con molteplici inte­ressi (ha appena pubblicato il saggio Investire nell’arte per Sperling&Kupfer). «Fino al 2010, non ero affatto ostile alla moneta unica», dice Borghi, «ma ho cambiato idea vedendo ciò che è accaduto dopo al crack della Grecia». Da quel momento in poi, secondo il professore della Cat­tolica, «tutti i Paesi di Eurolandia in difficoltà hanno do­vuto accettare delle condizioni di austerity a dir poco umi­lianti, che somigliano a quelle imposte di solito a una na­zione sconfitta in guerra». Con questo quadro di fondo, insomma, per Borghi appare evidente una cosa: i costi di un’eventuale uscita dell’Italia da Eurolandia, sarebbero as­sai inferiori a quelli che il nostro Paese dovrebbe invece sopportare restandoci dentro. Con una nuova moneta sva­lutata, l’economia della Penisola riacquisterebbe infatti competitività, dopo anni di recessione o di crescita-zero. Di fronte a questo scenario, c’è però chi paventa il rischio di una fiammata dell’inflazione: l’Italia è infatti un mercato povero di materie prime e, ogni anno, deve importare ton­nellate di petrolio, pagandole in dollari. Con una nuova moneta svalutata, a rigor di logi­ca, l’oro nero e le altre commo­dity costerebbero di più, facen­do lievitare i prezzi al consumo e riducendo la competitività della nostra industria.Per Borghi e Bagnai, si tratta però di timori ingiustificati, spesso sbandierati con toni terroristici da diversi commentatori pro-euro. Per soste­nere le loro tesi, i due economisti ricordano ciò che ac­cadde nel settembre del 1992, quando l’Italia fu costret­ta a uscire dallo Sme (il sistema monetario europeo) e a svalutare la lira di oltre il 25%. In quell’occasione, non si verificò alcuna ripresa dell’inflazione. Anzi, tra il ‘92 e il ‘93, con una lira svalutata, la crescita dei prezzi al consu­mo scese dal 5,3% a poco più del 4,5%, smentendo dunque le previsioni più cata­strofiste. «Ciò che molti osservatori non hanno ancora ben compreso», dice Bor­ghi, «è che l’inflazione e la svalutazione della moneta sono due fenomeni diversi, che non hanno una correlazione diretta». Anche perché, fa notare il professore del­la Cattolica, il costo della materia prima incide soltanto in parte sul prezzo finale dei beni e dei servizi venduti sul mercato: nel caso della benzina, per esempio, più della metà del valore alla pompa è rappre­sentato da tasse e accise e non dalle quo­tazioni del greggio. Moneta rifugio, e se toccasse al Bitcoin?

IL ROVESCIO DELLA MONETA. E allora, viene da chiedersi, se l’uscita dall’euro è un’ope­razione così benefica, perché incontra tanti ostacoli sulla propria strada, anche in Italia? A dire il vero, ci sono pure molti economisti che hanno idee ben diverse da quel­li di Borghi e Bagnai. Uno di questi, per esempio, è Mi­chele Boldrin, professore e responsabile del dipartimento di Economia alla Washington University in Saint Louis, negli Stati Uniti. Negli anni ‘90, Boldrin non è mai stato un grande “fan” dell’euro. Oggi, però, il professore ritiene che i costi di un’eventuale abbandono della moneta unica da parte dell’Italia sarebbero molto più alti di una (seppur sofferta) permanenza in Eurolandia. Non tanto per il ri­schio di una fiammata inflazionistica, quanto piuttosto per il peso enorme del nostro debito pubblico. In diversi interventi pubblici, infatti, Boldrin ha ricorda­to che l’indebitamento dell’Italia, oggi vicino al 130% del Pil, è totalmente denominato in euro. In altre parole, il nostro Paese ha emesso dei titoli di Stato in una moneta che adesso vuole abbandonare, per sceglierne un’altra che rischia di essere pesantemente deprezzata (c’è chi prevede una svalutazione pari ad­dirittura al 30 o 50%). Se ciò avvenisse, gli investitori esteri che detengono anco­ra buona parte del debito pubblico italia­no (per oltre il 40%) non accetterebbero mai di convertire nella nuova lira svalu­tata i loro Buoni del Tesoro o i loro credi­ti. Di conseguenza, il peso del debito pub­blico sul Pil italiano crescerebbe ancora, mettendo a dura prova le casse dello Sta­to. Per Boldrin, dunque, è meglio tenerci la moneta unica, e fare un bel mea culpa per le occasioni che l’ingresso in Eurolan­dia ci ha offerto e che il nostro Paese non ha saputo sfruttare, a cominciare dalla riduzione dei tas­si d’interesse, che avrebbe potuto far scendere di molto la spesa pubblica. Anche Giacomo Vaciago, noto economi­sta e professore della Cattolica, ha messo in evidenza più volte le difficoltà che l’Italia incontrerebbe nel convertire il proprio debito pubblico posseduto dagli stranieri in una nuova moneta svalutata, soprattutto se il nostro Paese de­cidesse di uscire dall’euro in maniera unilaterale. Certo, esiste un principio del diritto internazionale che si chiama lex monetae e che permette a uno Stato di sce­gliere liberamente la propria valuta, convertendovi tutti i contratti già esistenti e i titoli già emessi (compresi quel­li del debito pubblico). All’estero, però, una decisione di questo tipo avrebbe certa­mente delle ripercussioni nega­tive e provocherebbe delle ritor­sioni contro il nostro Paese. In una intervista alla Stampa rila­sciata alla fine del 2011, Vaciago ha dunque definito l’euro come «una torre senza vie di uscita, da cui si può fuggire soltan­to dalla finestra: mentre la Germania è al primo piano, l’I­talia è al dodicesimo». Come dire: l’eventuale abbandono dell’euro è dolorosissimo. Meglio sarebbe, a detta di Va­ciago, se l’Italia si decidesse a fare quelle riforme struttura­li che ancora non ha fatto: ridurre la burocrazia, combat­tere la corruzione, aumentare la produttività e stimolare l’innovazione e la crescita, in modo da agganciarsi al tre­no dell’Europa. Del resto l’euro è nato per creare un conti­nente economicamente integrato, in cui ogni Paese sia ca­pace di esprimere il meglio di sé.

UN PROCESSO DELICATO. Diversa e più articolata è invece la posizione di Emilia­no Brancaccio, docente di economia politica all’U­niversità del Sannio e autore di diversi saggi tra cui L’au­sterità è di destra e sta distruggendo l’Europa (scritto con Mar­co Passarella, Edizioni il Saggiatore). Per Brancaccio, il ri­schio concreto di una disgregazione dell’area euro «è nei fatti», cioè rappresenta un’ipotesi su cui hanno scommes­so costantemente i mercati finanziari negli ultimi anni, da quando si è vista l’impennata degli spread. La mone­ta unica resta dunque un «morto che cammina», nono­stante i ripetuti interventi della Banca centrale euro­pea a sostegno dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà. Si tratta di misure che, secondo il professore dell’Universi­tà del Sannio, hanno spostato in avanti il problema, ma non hanno certo sanato gli squilibri che oggi mettono an­cora a repentaglio la sopravvivenza di Eurolandia. Det­to questo, a differenza di Bagnai, Brancaccio sembra ave­re molte meno certezze sugli effetti benefici di una even­tuale uscita dell’Italia dall’euro e dice: «In realtà, non pos­siamo prevedere con esattezza quello che accadrebbe». Per abbandonare l’Unione monetaria ci possono essere so­stanzialmente due modi diversi. Il primo, più dannoso, consiste nell’adottare una nuova moneta deprezzata, sen­za dotarsi di protezioni. Il che esporrebbe l’Italia all’onda della speculazione finanziaria, al rischio di una fuga mas­siccia dei capitali, di acquisizioni estere delle banche e del­le aziende nazionali e di una pesante depressione dei sala­ri. Del resto, ricorda, Brancaccio, le svalutazioni della mo­neta non sono sempre state indolori: negli anni ‘90 del se­colo scorso, per esempio, in Asia o in Sudamerica il prez­zo più salato è stato pagato dai lavoratori, che hanno subi­to una perdita del potere di acquisto delle loro retribuzio­ni. Tuttavia, secondo Brancaccio, esiste anche un modo al­ternativo per abbandonare la moneta unica, che avrebbe invece effetti ben diversi da quelli appena descritti. L’usci­ta dall’euro potrebbe avvenire dotandosi di efficaci mecca­nismi di protezione: delle temporanee limitazioni ai mo­vimenti di capitale per impedirne la fuga, degli interven­ti della Banca centrale contro la speculazione finanziaria, vincoli alle acquisizioni estere a buon mercato di capitali nazionali, nuovi meccanismi di controllo dei prezzi e di in­dicizzazione dei salari all’inflazione, in modo da protegge­re il potere di acquisto dei lavoratori. Con questa exit stra­tegy, secondo Brancaccio, l’uscita dall’euro potrebbe essere gestita in termini molto più razionali ed efficaci.

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