Fondo strategico: 7 miliardi per fare cosa?

Ora l'Italia ha il suo fondo sovrano. Si chiama Fsi ed è pensato per aiutare economicamente le aziende tricolori a crescere e assumere peso a livello internazionale. Le aspettative sono alte, altrettanto le perplessità

Dal 6 agosto scorso, nell’elenco dei grandi fondi sovrani di tutto il pianeta riuniti nell’Ifswf (International Forum of Sovereign Wealth Funds), compare anche un nome italiano che probabilmente molti esponenti della business community internazionale – soprattutto quelli che vivono a migliaia di chilometri da Roma – conoscono ancora poco.

Si tratta di Fsi (Fondo strategico italiano), è controllato dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp) e ha una quantità di risorse per circa 4,4 miliardi di euro, che possono raggiungere i 7 miliardi.

Per adesso, dunque, i soldi a disposizione di Fsi sono ben poca cosa rispetto all’arsenale messo in campo dai grandi fondi sovrani internazionali come quelli della Norvegia, degli Emirati Arabi o della Cina, che amministrano patrimoni stellari da centinaia e centinaia di miliardi di dollari.

Perché abbiamo bisogno di un grande fondo strategico

Tutti i rischi del nuovo capitalismo di Stato

PARTECIPAZIONI STRATEGICHE. A parte questi “dettagli” tutt’altro che trascurabili, però, una cosa è certa: anche in Italia, proprio come in Cina, Norvegia o negli Emirati Arabi, oggi esiste un vero e proprio fondo sovrano, cioè una potenza di fuoco finanziaria controllata dallo Stato, attraverso il veicolo della Cdp, che si candida a giocare un ruolo determinante nell’economia e nella politica industriale del Paese.

In che modo? A ben guardare, sebbene l’ingresso nell’Ifswf sia abbastanza recente, il Fondo strategico italiano ha già alle spalle alcuni anni di vita, durante i quali ha cambiato un po’ le proprie ambizioni. Nato nel 2011 per impedire che molti gioielli del made in Italy subissero l’arrembaggio dei gruppi esteri, Fsi è stato investito negli anni successivi di una nuova missione, soprattutto per volontà dei governi Letta e Renzi.

Lo scopo è creare un nuovo soggetto del capitalismo di Stato che acquisisca partecipazioni di minoranza in settori considerati strategici per l’economia nazionale come la difesa, la sicurezza, le infrastrutture, la tecnologia, le assicurazioni o i servizi di pubblica utilità.

A questi, nel luglio scorso, si sono aggiunti l’agroalimentare, la cultura e il comparto turistico-alberghiero, grazie a un decreto firmato dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ha seguito il solco già tracciato dal suo predecessore Fabrizio Saccomanni e dall’ex premier Enrico Letta.

Il ragionamento seguito dagli ultimi due governi sembra abbastanza chiaro: poiché in Italia oggi gli investimenti privati vanno a singhiozzo e il capitalismo nazionale ha una corporatura molto fragile, per sostenere l’economia si può utilizzare una realtà come il Fondo strategico, che può contare sulle spalle ben robuste della sua controllante, la Cassa depositi e prestiti, la quale ha a disposizione una montagna di risorse visto che gestisce oltre 200 miliardi di risparmi delle famiglie.

SOSTEGNO AL MADE IN ITALY. E così, sotto la guida dell’amministratore delegato Maurizio Tamagnini, un manager con oltre vent’anni di esperienza nel settore finanziario e nel private equity, Fsi ha già acquisito partecipazioni di minoranza in diverse medie aziende italiane specializzate in nicchie d’eccellenza.

È il caso di Kedrion, quinto produttore mondiale di farmaci derivati dal trattamento del plasma, del costruttore di valvole Valvitalia, o di Sia, che è tra i leader europei nella progettazione e gestione di servizi tecnologici per il settore finanziario. Il 2013-2014, però, è stato un biennio di svolta.

Il governo Letta, infatti, ha lavorato intensamente per far entrare Fsi nel gotha mondiale dei fondi sovrani, siglando diverse partnership internazionali. Nel 2013, durante il vertice annuale tra Italia e Russia, è stato firmato per esempio un accordo con Rdif, il corrispettivo moscovita, che dispone di un patrimonio di 10 miliardi di dollari. L’intesa prevede uno stanziamento paritetico fino a un miliardo di dollari per gli investimenti che possono contribuire alla cooperazione economica tra i due Paesi e alla crescita delle rispettive economie.

Sempre nel 2013, è nata la IQ Made in Italy Investment Company, una joint venture da due miliardi di euro tra Fsi e il fondo sovrano del Qatar, che investirà in società attive in alcuni settori tipici del made in Italy, come l’arredo e il design, il turismo o l’alimentare.

Poi, nel febbraio del 2014, è arrivato l’accordo con la Kuwait Investment Authority (Kia), il fondo sovrano del Kuwait, che ha deciso di investire un po’ di soldi in Fsi, tramite una neo-costituita società. In questa nuova realtà, il Fondo strategico italiano ha conferito le proprie attuali partecipazioni per un valore di oltre 2 miliardi di euro, corrispondenti a una quota di maggioranza dell’80%, mentre i soci del Golfo Persico hanno acquisito il restante 20%, sborsando una cifra di 500 milioni di euro.

QUESTA POTENZA DI FUOCO FINANZIARIA

SI CANDIDA A GIOCARE UN RUOLO

DETERMINANTE NELL’ECONOMIA

E NELLA POLITICA INDUSTRIALE DEL PAESE

PROGETTI NEL TURISMO. Infine, nel luglio del 2014, è arrivata un’altra novità di rilievo, già ricordata in precedenza: il ministro dell’Economia Padoan ha ampliato il perimetro di investimenti di Fsi, consentendogli di entrare nel capitale di società attive nel turismo, nell’agroalimentare o nella cultura, che abbiano almeno 50 milioni di euro di fatturato, contro il limite minimo di 300 milioni, previsto invece per gli investimenti negli altri comparti produttivi.Anche le medie imprese italiane, dunque, avranno maggiori chance di entrare nelle mire del Fondo strategico.

Per adesso, poco o nulla si sa sulle possibili operazioni di Fsi. Da tempo, tuttavia, si parla della creazione di un grande polo alberghiero di dimensione nazionale, frutto dell’aggregazione tra almeno tre catene di hotel che si stanno ristrutturando o che potrebbero essere presto vendute: il gruppo Boscolo, Ata e Unahotels.

Tale ipotesi ha preso corpo soprattutto a partire dal maggio scorso, quando l’ad di Fsi Tamagnini ha avanzato l’ipotesi di mettere in campo un’importante operazione proprio nel settore alberghiero, sul modello di quella effettuata con Ansaldo Energia, la società a partecipazione statale che il Fondo strategico ha acquisito nel 2013 da Finmeccanica, per traghettarla poi verso l’accordo con un nuovo partner internazionale: i cinesi di Shanghai Electric, che sono entrati nel capitale della società nella primavera scorsa.

L’idea di Tamagnini è ora di promuovere un fondo aperto agli investitori istituzionali che acquisisca la proprietà di immobili del comparto turistico, che oggi in Italia è molto frammentato e ha un gran bisogno di risorse. In tale fondo, potrebbe finire anche una parte del patrimonio demaniale pubblico delle grandi città, che necessita di essere valorizzato.

Su questa base, grazie alle sue entrature nella business community, Fsi potrebbe farsi contemporaneamente promotore di un accordo con un partner strategico, per esempio una catena turistica attiva a livello internazionale, per creare appunto un grande polo italiano del settore alberghiero aperto agli investimenti esteri.

È proprio la stessa “filosofia” seguita con l’operazione-Ansaldo, che delinea chiaramente quale può essere il ruolo di Fsi nell’economia italiana: agire come soggetto pubblico che aiuta le medie aziende del made in Italy a crescere e ad assumere dimensioni rilevanti a livello internazionale, soprattutto quando altri soggetti finanziatori, come per esempio i fondi di private equity, non sono disposti a metter mano al portafoglio.

IL RISIKO DELLE UTILITIES. È ancora presto per dire se le ambizioni del Fondo strategico si trasformeranno in qualcosa di concreto in tempi brevi, soprattutto nei settori dell’agroalimentare e della cultura, dove i progetti devono ancora partire del tutto.

Intanto, però, Fsi è pronto a impegnarsi su un altro fronte: il settore dei servizi di pubblica utilità come la distribuzione del gas, dell’energia e dell’acqua. Anche qui, l’idea è di intervenire in un comparto produttivo molto frammentato, dove operano decine di aziende utilities ex municipalizzate.

«Ci sono aziende attive su scala provinciale o ultra-provinciale che, pur avendo già raggiunto dimensioni rilevanti, hanno bisogno di aggregarsi per realizzare così delle economia di scala nella gestione», dice l’avvocato Giovanni Penzo, partner dello studio internazionale Osborne Clarke. Inoltre, secondo Penzo, in queste realtà c’è un notevole bisogno di risorse finanziarie per fare investimenti e parecchie utilities, da sole, non ce la possono fare.

«Per esempio, nel settore dei servizi idrici», ricorda, «l’Italia rischia seriamente di subire delle multe da parte dell’Unione Europea nei prossimi anni, poiché non ha rispettato gli obiettivi di miglioramento della rete di distribuzione dell’acqua fissati a Bruxelles».

L’arrivo nell’azionariato di un nuovo socio stabile come il Fondo strategico italiano e altre realtà in seno alla Cassa depositi e prestiti, da realizzarsi con degli aumenti di capitale, per l’avvocato di Osborne Clarke può essere dunque una soluzione. La Cdp, attraverso il Fondo strategico, è pronta a mettere sul piatto circa 500 milioni di euro per comprare quote di minoranza in diverse società e favorirne poi l’aggregazione, in modo da creare delle realtà un po’ più solide di quelle attuali.

A chi paventa il rischio di un nuovo dirigismo di Stato, Penzo dice: «Credo che, in questo momento, occorra seguire un approccio molto pragmatico per risolvere i problemi, evitando i dibattiti ideologici. Se c’è bisogno di risorse per fare investimenti e queste risorse possono arrivare da un soggetto pubblico come la Cassa depositi e prestiti, perché non utilizzarle?».

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