Che cosa vuol dire (oggi) innovazione?

L’Ue è pronta a investire il 3% del pil in ricerca & sviluppo per creare 3,7 milioni di posti di lavoro. Ma ottenere la “disruption” di cui parlano gli esperti non è un processo facile: bisogna unire le intuizioni più svariate, accettare partnership extrasettoriali e soprattutto trovare il modo per capitalizzare l’inventiva delle pmi

Dalla creative destruction, teorizzata da Joseph Alois Schumpeter (1949), alla big bang disruption, enunciata da Larry Downes e Paul F. Nunes (2014), il passo in fondo è stato relativamente breve. E dire che, in poco più di mezzo secolo, abbiamo assistito a un cambio di marcia senza precedenti nell’innovazione relativa al mondo del business. Un processo, quest’ultimo, che continua a indicare sempre la «realizzazione tecnica e il conseguente sfruttamento commerciale di un’idea, l’incarnazione dell’invenzione in un nuovo prodotto o servizio», secondo quanto scriveva l’economista austriaco, ma che ai nostri giorni si presenta con effetti ben più veloci e dirompenti, alle volte quasi istantanei. È in tale rapidità la straordinarietà della “disruption”, nel demolire anche in pochi mesi – a colpi di byte e click – vecchi modelli economici e ridefinire la struttura di interi settori. Nell’epoca attuale delle start up cresciute a pane e hi tech nella Silicon Valley, può volerci davvero poco perché una Airbnb metta in crisi i sistemi turistici o una Uber costringa a ripensare profondamente la mobilità urbana.Sempre più spesso a cambiare lo status quo sono soluzioni “smart” che integrano idee e tecnologie appartenenti anche a mondi molto differenti tra loro, magari messe a punto non nelle sale ovali di quotate multinazionali, ma in stanze universitarie e garage striminziti, passando da una modalità top down a una di tipo bottom up. Oltre al fatto che in tale ambito l’anzianità e le dimensioni contano poco, quali sono i fattori vincenti in grado di trasformare affari e fatturati in volani dell’economia?

APRITEVI AI TALENTI ESTERNI

ANCHE IL MATTONE SI FA SMART

VALORE COLLETTIVOA livello macro, utili indicazioni arrivano dall’ultima edizione dell’annuale studio Ue Innovation Scoreboard 2015, che mostra anche lo stato dell’arte nei 28 Stati membri di quello che è un driver essenziale per rafforzare la competitività delle aziende, creare occupazione, migliorare il benessere collettivo. Un obiettivo che, infatti, è stato fissato come uno dei punti prioritari nell’agenda del presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker: secondo quanto stabilito dal piano settennale 2014-2020, l’Ue investirà il 3% del prodotto interno lordo in Ricerca & Sviluppo, puntando a 3,7 milioni di nuovi posti di lavoro e a portare il pil a 800 miliardi di euro entro il 2025. Nell’indagine, le performance di ciascun Paese vengono analizzate e quantificate sulla base di 25 indicatori che costituiscono vari aspetti del concetto di innovazione. Al di là delle specificità singole, questi fattori sono stati distinti in tre categorie fondamentali, articolate in otto dimensioni: gli elementi abilitanti – i cosiddetti “facilitatori” – che rendono possibile l’innovazione (risorse umane, finanziamenti e sostegno, sistemi di ricerca aperti, di eccellenza e attrattivi); l’attività delle imprese (configurata in investimenti, collegamenti e attività imprenditoriali, patrimonio intellettuale) e gli output (innovatori ed effetti economici come benefici per l’intera economia). Quale immagine emerge? Ebbene, in fatto di innovazione e sviluppo, l’Europa nel suo complesso è sostanzialmente in stallo – con un valore dell’Innovation Performance che oscilla tra lo 0,5 e lo 0,6 espresso in millesimi, e un tasso di crescita annuale medio pari all’1% in otto anni, dal 2007 al 2014 – laddove i segni positivi, come quelli alla voce delle co-pubblicazioni scientifiche internazionali, vengono neutralizzati da quelli negativi, in particolare dal calo degli investimenti in R&S. Nell’ambito di un contesto globale, poi, se l’Ue continua a emergere rispetto ad Australia e Canada, risulta in una posizione inferiore rispetto a Corea del Sud, Stati Uniti e Giappone, soprattutto per quanto riguarda finanziamenti, brevetti depositati e livello d’istruzione. Se guardiamo invece alla situazione interna, la medaglia d’oro di “innovation leader” (il primo dei quattro gruppi in cui sono suddivise le nazioni, seguito da “innovation follower”, “moderate innovator” e “modest innovator”) va alla Svezia, in compagnia di Danimarca, Finlandia e Germania. Maglia nera, invece, a Bulgaria, Lettonia e Romania, con prestazioni ben al di sotto della media.

E L’ITALIA?Nella graduatoria Ue, la Penisola si colloca tra i “moderate innovator”. In termini relativi, il Belpaese registra i risultati peggiori nei finanziamenti e negli investimenti per la modernizzazione dei settori privato e pubblico, ulteriormente diminuiti rispetto al 2014, per l’insufficiente percentuale di pil investita in R&S e scarso livello di popolazione con educazione terziaria. I dati migliori, invece, arrivano dalle buone performance nelle pubblicazioni scientifiche internazionali congiunte e, malgrado le ridotte dimensioni, dall’alto tasso di pmi (35%) che registrano innovazioni in-house. «Innovare è saper offrire un prodotto sempre migliore, personalizzato secondo le esigenze del cliente, in minor tempo e a costi competitivi», dichiara Alberto Baban, presidente Piccola Industria di Confindustria e vicepresidente della stessa. «Era così in passato, ma oggi lo è ancora di più perché il mercato è diventato globale e noi imprenditori dobbiamo essere in grado di relazionarci con una clientela sempre più internazionale a fronte di una concorrenza ancora più agguerrita». Non solo. «Prima ci si concentrava soprattutto sull’innovazione di prodotto, oggi l’innovazione riguarda l’impresa nella sua complessità, a 360 gradi. È anche innovazione di processo perché occorre agire su tutte le funzioni aziendali: finanza, risorse umane, comunicazione. Molto dipende dalla capacità di “contaminarsi” e di instaurare un rapporto nuovo con la ricerca applicata, facendo entrare l’innovazione in azienda e puntando alla partecipazione agli ecosistemi di business». Dagli ultimi dati del Centro Studi Confindustria (fine 2013), apprendiamo che, sebbene le pmi negli ultimi anni abbiano registrato una diminuzione numerica a fronte della crisi, sono ancora il doppio di quelle tedesche e occupano 13 milioni di addetti, costituendo la spina dorsale del nostro sistema economico e produttivo. Sono inoltre imprese che continuano a generare più della metà dell’export nazionale (53%), in particolare quelle che non hanno smesso di investire nella ricerca e nella sperimentazione. «Oggi sono tante le realtà che innovano per essere competitive, tuttavia il fenomeno emerge poco perché gran parte dei risultati non vengono capitalizzati», aggiunge Baban. «Ecco perché occorre una normativa fiscale che consenta di accorciare i tempi di ammortamento e incoraggi a inserire questa voce nel bilancio. Ciò migliorerebbe la patrimonializzazione e il merito di credito, rendendo le pmi più interessanti agli occhi di potenziali investitori. Quest’ultimo, tra l’altro, è un punto su cui insiste anche il recente provvedimento dell’Investment Compact che ha riconosciuto la figura delle “pmi innovative”, prevedendo la possibilità di usufruire di agevolazioni e semplificazioni per chi si registra in un’apposita sezione del registro imprese». Attualmente risultano una cinquantina le realtà medio-piccole iscritte. In parallelo, avanzano anche le start up ad alto tasso tecnologico: rappresentano lo 0,28% del milione e mezzo di società di capitali italiane e, nel secondo trimestre 2015, se ne contano oltre 4 mila; la maggior parte sono specializzate nella fornitura di servizi in ambito informatico e in R&S.

INSOLITE CONNESSIONINel loro saggio Innovator’s Dna (2011), tre illustri professori americani – Jeff Dyer, Hal Gregersen e Clayton M. Christensen (quest’ultimo, il primo a coniare il termine disruption) – spiegano che la capacità d’innovazione dei singoli non è dovuta alla genetica, a un talento innato, bensì è un obiettivo a cui tutti possono tendere, attraverso la pratica costante di cinque abilità che hanno esercitato di continuo Steve Jobs e Jeff Bezos: stabilire associazioni, anche tra ambiti differenti tra loro e a prima vista poco pertinenti; impegnarsi a formulare le domande giuste, prima di buttarsi a cercare le risposte corrette; osservare; stabilire reti di conoscenza anche con persone molto differenti; e sperimentare attraverso test e collaudi, secondo strade che possono portare a soluzioni inedite e originali. Il profilo dell’iPod, per esempio, nacque grazie a un designer che giocava con una serratura a combinazione durante una riunione.Dyer e Gregersen, inoltre, sono anche contributors per la rivista Forbes della classifica 100 Most Innovative Companies 2015 in cui prendono in considerazione aziende a partire da dieci miliardi di dollari in capitalizzazione di mercato, che reinvestano una percentuale non inferiore al 2,5% del proprio fatturato in R&S e diffondano da almeno sette anni i loro risultati economici. Il loro metodo si fonda sull’Innovation Premium, misura di quanto gli investitori abbiano valutato un’impresa non rispetto alle sue performance economiche passate, ma basandosi sule aspettative di risultati futuri, come l’implementazione di nuovi prodotti e servizi e l’ingresso in nuovi mercati. Al vertice della graduatoria figura la casa automobilistica Tesla, con il merito di aver introdotto, con la sua berlina Model S di ultima generazione, un’innovazione ad alto tasso di high-end technology disruption, cioè tale da «scavalcare i confini naturali di un determinato ambito e da essere difficilmente imitata da altri competitor in tempi brevi». O di Under Armour per aver scelto come testimonial Misty Copeland, il “cigno nero” dell’American Ballet. Ma anche della cinese Baidu per le sue bacchette smart che rilevano il cibo avariato. E ancora di Luxottica, unica italiana in graduatoria, con i suoi Velvet Sunglasses che abbinano materiali aerospaziali, frammenti stampati in 3D, denim e pelle. E che dire di Adobe, che si è aggiudicata una posizione in classifica grazie anche a Kickbox, un software open source sicuro e affidabile che consente a chi fa innovazione di definire, perfezionare, convalidare e far evolvere le proprie idee. Usato internamente per i dipendenti, ora è disponibile online per chiunque. Sì, perché la disruption parte innanzitutto dal singolo. «Per creare innovazione, bisogna prima creare innovatori», assicura Mark Randall, Vice President of Creativity della compagnia, che confermerebbe le teorie degli studiosi americani citati. I quali, a loro volta, ci ricordano che i più grandi disruptor sono coloro che si confrontano con tutti, ma decidono da soli. Quelli che non delegano il processo innovativo, ma lo incarnano essi stessi nel quotidiano, rompendo schemi obsoleti, visioni consolidate non più adeguate alla realtà. Dimostrando, in fondo, di aver recepito e messo in pratica la lezione di uno dei più grandi rivoluzionari della storia: «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo». Parola del Mahatma Gandhi.

© Riproduzione riservata