D-Orbit, spazzini fra le stelle

La storia della società milanese, nel mirino dei maggiori fondi di investimento, è quella di un ingegnere che sognava di diventare astronauta e ha finito per specializzarsi nella rimozione dei satelliti fuori uso: «Ma prima ho dovuto imparare a fare il manager»

Un’onda di detriti investe lo Space Shuttle Explorer e lo distrugge in mille pezzi. Gli unici a salvarsi sono i due astronauti impegnati nel momento dell’impatto in una passeggiata all’esterno della navicella. Inizia così Gravity, il film premio Oscar di Alfonso Cuaròn con protagonisti Sandra Bullock e George Clooney. Forse i tuttologi erano già a conoscenza della grande mole di rifiuti che circola ininterrottamente intorno alla Terra. In tanti, però, lo hanno scoperto solo grazie alla pellicola del regista messicano. Spazzatura prodotta dall’uomo e abbandonata nello spazio: rottami di satelliti, pezzi di navicelle andate perdute. In grandi quantità. Tanto che l’Esa, l’Agenzia spaziale europea, ha di recente lanciato il programma Clean Space con la volontà di limitare l’aumento di satelliti non più funzionanti in orbita e di studiare i movimenti imprevedibili dei detriti spaziali abbandonati, per andare poi a recuperarli. Esiste oggi in Italia una società che è stata capace di imporsi sui mercati internazionali proprio perché è riuscita a dare una risposta a un problema che, se sottovalutato, rischia di diventare pericoloso per il genere umano, considerando la centralità dello spazio per le nostre comunicazioni. Si chiama D-Orbit ed è una realtà imprenditoriale nata a Milano nel 2011 grazie all’intuito di due ingegneri, Luca Rossettini e Renato Panesi, con la volontà di fornire strumenti per prevenire l’inquinamento celeste.D-Orbit fornisce soluzioni per la rimozione sicura e controllata dei satelliti al termine della loro vita operativa. In pochi anni è riuscita a far conoscere il suo business e le sue competenze in tutto il mondo, ha raccolto l‘interesse di diversi fondi di investimento e guarda ora con fiducia al futuro, forte dei risultati ottenuti sin qui. A dire il vero il sogno nel cassetto di Luca Rossettini era un altro. Anche se non si è ancora avverato, alla fine l’ingegnere un forte fil rouge con le sue aspirazioni lo ha mantenuto…

Allora, cosa voleva da fare da piccolo?L’astronauta. E ci ho provato anche, senza successo, ma ci ho provato. Ai tempi dell’università ho partecipato al concorso dell’Esa per diventare un uomo dello spazio. Diecimila persone in lizza per soli quattro posti. Sono andato avanti nelle selezioni, mi sono qualificato tra i primi 200 aspiranti, ma alla fine ho dovuto rassegnarmi. L’amore per lo spazio però non mi ha abbandonato. Anzi, è stato alla base dei miei successivi traguardi professionali.

Dove ha compiuto i suoi studi?Buona parte del mio percorso formativo è stata in Italia, a Milano. Mi sono laureato al Politecnico in Ingegneria aerospaziale e, nello stesso ateneo, ho effettuato un dottorato di ricerca in Propulsione avanzata per lo spazio, dopo aver completato un master in Leadership strategica per la sostenibilità. Tanto studio, ma anche le prime esperienze di lavoro, da imprenditore Nel corso del dottorato ho aperto la prima società, Irta, operativa nel mercato dei sistemi di visione e slow motion tracking avanzati, utilizzando camere ad alta velocità e droni progettati e realizzati da noi.

Com’è avvenuta la svolta verso la “nettezza spaziale“Per mettere a punto il progetto D-Orbit è stata importante l’esperienza vissuta negli Stati Uniti. Ero un tecnico, molto preparato, ma privo di quelle competenze ma-nageriali che sono imprescindibili per trasformare una buona idea in un’opportunità di business. Nel 2009 ho vinto una borsa di studio Fulbright Best, finanziata da aziende italiane e promossa dall’ambasciata americana. In quegli anni il problema dei rifiuti nello spazio era già noto al mondo accademico, ma aveva avuto ancora poco impatto nella realtà delle operazioni spaziali. Andai in California, nella Silicon Valley, e lì studiai business venendo a contatto con il mondo, allora emergente, delle start up, mentre completavo la mia formazione anche con un’esperienza come stagista al Nasa Research Center. Quegli anni furono fondamentali per mettere a punto il business plan di D-Orbit.

Poi però è tornato. Non sarebbe forse stato più facile lavorare negli Usa?No, perché l’Italia per me è stata, e lo è tuttora, una grande opportunità. Ci dimentichiamo spesso dell’alto livello culturale che ci contraddistingue nello scenario internazionale. I nostri cervelli sono unici al mondo, un dettaglio non trascurabile quando si vuole avviare un’attività imprenditoriale.No, perché l’Italia per me è stata, e lo è tuttora, una grande opportunità. Ci dimentichiamo spesso dell’alto livello culturale che ci contraddistingue nello scenario internazionale. I nostri cervelli sono unici al mondo, un dettaglio non trascurabile quando si vuole avviare un’attività imprenditoriale.

Fare impresa in Italia, dunque, è possibile nonostante la cattiva nomea del nostro Paese?L’Italia è un Paese con tanti problemi, che offre però anche molte opportunità, spesso sottovalutate. Guardando solo al settore di cui mi occupo, l’Italia è stato il terzo Paese dopo l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti a lanciare un satellite nello spazio. Il nostro know how nel comparto aerospaziale è di alto livello. D-Orbit lavora da sempre con persone molto competenti: al principio abbiamo chiamato a raccolta tanti manager a fine carriera, che ci hanno aiutato a formare gli ingegneri più giovani. E i risultati non si sono fatti attendere. Problemi non ne mancano, a partire dalla lentezza della burocrazia, ma qualcosa ora si sta muovendo nella giusta direzione. Le faccio un esempio: la legge sulle start up innovative ci ha permesso di chiedere un prestito di 1,2 milioni di euro che, senza le agevolazioni previste dalla norma, non avremmo mai ottenuto. In questo modo abbiamo assunto nuovi tecnici e commerciali, e da lì sottoscritto nuovi contratti. Inoltre, siamo diventati di recente il primo Paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, a riconoscere per legge le B-corporation, ovvero quelle aziende che esercitano l’attività economica non solo ai fini del profitto. ma perseguendo anche per statuto finalità sociali. Provvedimenti come questo contribuiscono a rendere più innovativo il sistema Paese: continuare lungo questa strada non può che portare benefici.

Che messaggio vuole lanciare a chi oggi ha in progetto di avviare un business nel settore spaziale?Lo spazio è il mercato del futuro prossimo. Tutte le attività che oggi vediamo qui sulla Terra, a breve saranno lanciate anche lassù. Nuove opportunità dunque si aprono per quelle aziende interessate a investire. In questo scenario, però, sarà fondamentale non dimenticarsi delle lezioni imparate dal fare business “con i piedi per terra”: vendere oggi soluzioni che creeranno problemi in futuro è un boomerang, che potrebbe irrimediabilmente danneggiare tutto il mercato.

I SOSTENITORI
«Il primo fondo italiano che ha creduto in noi è stato Quadrivio: in quel momento D-Orbit ha spiccato il volo», ricorda Luca Rossettini. «Nel nostro capitale sono presenti oggi anche Como Venture e Ict, Investor Club Torino». In queste settimane è inoltre in fase di negoziazione con un fondo non europeo per un ulteriore aumento di capitale. «Il mercato crede in noi, e questo si riflette anche sui risultati di business: per il 2016, il nostro piano prevede un fatturato di due milioni di euro, ma non è escluso che possa quasi raddoppiare», conclude uno dei fondatori di D-Orbit. «Lavoriamo molto in Europa, negli Stati Uniti, e ultimamente in Africa del Nord e anche in Asia».

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