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Sostenibilità

Pmi italiane: servono 135 miliardi per l’economia sostenibile

L’analisi del Cerved sui costi della transizione energetica: un investimento alla portata delle nostre aziende e che va fatto per ridurre la probabilità di default nel prossimo futuro

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La destabilizzazione del quadro internazionale e lo shock energetico hanno ridimensionato le aspettative di ripresa economica, che si avviavano a superare i livelli pre-Covid grazie al forte rimbalzo del 2021. Nei diversi possibili scenari che prendono in esame l’escalation del conflitto russo-ucraino, blocco delle forniture di gas, mancata implementazione del Pnrr, i fatturati delle aziende del nostro Paese potrebbero ridursi in media dell’1% nel 2023, generando una dinamica recessiva causata dalla riduzione dei consumi (-0,6%) e dalla stagnazione di investimenti (+1,6%) ed export (+1,9%), con effetti molto più pronunciati nei settori ad alta dipendenza dal gas e dall’energia.

La crisi economica non deve far allentare la presa delle aziende sulla vera sfida dei prossimi decenni, ovvero la gestione della transizione verso un’economia sostenibile. Solo così, infatti, le imprese del nostro Paese possono scongiurare eventi estremi che rappresentano una seria minaccia anche a livello sociale e finanziario. È quanto si sottolinea nel Rapporto Cerved PMI 2022, lo strumento di analisi della condizione economico-finanziaria delle piccole e medie imprese italiane (160 realtà prese in esame), che punta i riflettori su un dato particolare: chi non adotterà provvedimenti per mitigare i rischi fisici legati ai cambiamenti climatici avrà nel 2050 il 25% in più di probabilità di default rispetto a oggi, e il 44% in più di chi invece investe fin da ora. Non solo: per le imprese ad alto rischio fisico (oltre l’8%) si prospetta al 2050 una quota di costi annui per la ricostruzione pari all’1,6% dell’attivo e un aumento dei premi assicurativi fino al 3% del fatturato.

“Complessivamente, l’investimento che le pmi dovrebbero sostenere per finanziare fin da ora il processo di transizione è di circa 135 miliardi di euro entro il 2030 (cioè il 47% dello stock delle immobilizzazioni materiali dichiarato nel 2020 e il 12,8% dell’attivo)”, commenta Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved. Si tratta di un investimento che per il 79,7% è a carico dell’industria (circa 109 miliardi), per l’8% dei servizi (quasi 11 miliardi) e il resto diviso tra costruzioni (4,3%, quasi 6 miliardi), commercio (4,1%, 5,6 miliardi), trasporti e public utilities (3,5%, quasi 4,8 miliardi) e agricoltura (0,4%, 570 milioni). “Abbiamo stimato, però, che l’indebitamento aggiuntivo in condizioni di sicurezza delle pmi italiane sia di circa 81 miliardi di euro, quindi oltre la metà degli investimenti necessari potrebbe essere finanziata con un aumento dell’indebitamento senza un impatto significativo sulla solidità finanziaria: una sfida che le imprese, con il supporto intelligente del sistema bancario, sono ampiamente in grado di affrontare”.

Secondo Mignanelli, una transizione “ordinata”, nonostante gli alti costi nel breve termine, “rappresenta la scelta migliore anche considerando gli andamenti economici e le prospettive di rischio, ma richiede la partecipazione attiva di tutti gli attori: il sistema politico, per la definizione di obiettivi chiari e di una strategia coerente per perseguirli; il sistema produttivo, per l’adeguamento tempestivo dei loro modelli operativi; il sistema bancario, per cogliere con consapevolezza i rischi ma soprattutto le opportunità che derivano dalla transizione”.

Il Climate Stress Test sulle PMI

Sulla scorta di quanto fatto dalla Banca Centrale Euroepa, che ha invitato le principali banche del nostro Continente a condurre il primo esercizio di Climate Stress Test per valutare la resilienza delle aziende e delle banche stesse ai rischi climatici, Cerved ha condotto un analogo esercizio di Climate Stress Test sulla popolazione di pmi italiane, integrando gli input forniti dalla BCE con score, modelli e algoritmi di simulazione e proiettando al 2050 i bilanci individuali delle imprese, di cui sono state stimate variabili chiave come emissioni, consumi energetici, esposizione al rischio fisico. Tre gli scenari a confronto: la transizione “ordinata” (orderly), che procede in modo regolare verso il raggiungimento degli obiettivi di Parigi, concentrando i maggiori investimenti nel decennio 2020-2030; quella “disordinata” (disorderly), in cui gli interventi vengono attuati solo nel biennio 2030-2040, con costi più elevati nel medio termine; infine lo scenario “serra” (hot house), in cui si interviene in maniera insufficiente, con un conseguente aumento della frequenza e della severità degli eventi fisici.

Più nel dettaglio, partendo dalle emissioni, nello scenario ordinato calerebbero rapidamente già nel primo decennio e l’introduzione di una Carbon Tax renderebbe conveniente la realizzazione di forti investimenti per ridurre l’impatto ambientale dei processi produttivi, mentre in quello disordinato le emissioni diminuirebbero solo dal 2040. Anche nella composizione dell’energy mix (le pmi, secondo le stime di Cerved, nel 2020 hanno speso circa 8 miliardi di euro in energia) si verificherebbe una dinamica simile: nel 2030 le fonti non rinnovabili (carbone, gas e petrolio) rappresenterebbero il 61,7% del mix energetico nello scenario ordinato, contro il 75,2% degli altri due, poi però il divario tra transizione ordinata e disordinata diminuirebbe e l’introduzione massiva di energia da fonti rinnovabili ne ridurrebbe significativamente l’incidenza sul fatturato.

Al contrario, nello scenario “serra” la quota delle non rinnovabili rimarrebbe al 65% anche nel 2050. È la componente del rischio fisico, però, a fare la differenza, perché determina maggiormente la probabilità di default (PD) delle pmi italiane, che anche per la conformazione naturale della nostra penisola si collocano per oltre l’8% nella fascia di rischio fisico alto o molto alto e per il 30% nella fascia di rischio medio. Emerge infatti come gli investimenti portino nel lungo periodo a una riduzione della probabilità di default mediana nei due scenari con transizione, che è invece in crescita dal 2030 nello scenario “serra”, quando l’impatto dei rischi fisici si fa più evidente: +25% di rischiosità rispetto a oggi e +44% rispetto allo scenario ordinato.

Ma non solo: sono stati considerati, da un lato, la necessità di maggiori investimenti per la ricostruzione di impianti, capannoni, magazzini colpiti da frane o da alluvioni, strettamente legate all’innalzamento della temperatura, dall’altro la crescita dei premi assicurativi richiesti dalle compagnie per coprire, almeno in parte, i danni. Negli scenari ordinato e disordinato, la frequenza degli eventi negativi aumenta solo marginalmente e il costo degli investimenti per la ricostruzione raggiunge al massimo lo 0,1% dell’attivo per le pmi ad alto rischio nel 2050, e anche il premio assicurativo incide per l’1,1% del fatturato. Nello scenario “serra”, invece, per le imprese ad alto rischio fisico si prospetta al 2050 una quota di investimenti annui per la ricostruzione pari all’1,6% dell’attivo e un aumento dei premi assicurativi fino al 3% del fatturato.

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