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Italia, dipende tutto da noi. Intervista a Roberto Verganti

Si riassume così il pensiero sul futuro del membro italiano del board dell’European Innovation Council, istituto europeo preposto a valutare e finanziare l’innovazione delle imprese

L’innovazione come motore di sviluppo e quindi della tanto sospirata ripresa: di resilienza il nostro Paese ha dato prova più che abbondante, è arrivato il momento di vedere un segnale che orienti i decisori e metta in movimento il comparto produttivo. Segnale che sembrerebbe arrivare dall’Europa, e soprattutto dai 95,5 miliardi di euro stanziati per il programma Horizon Europe 2021-2027, che finanzia settori innovativi e acceleratori di sviluppo. L’accordo formale è stato raggiunto alla fine dello scorso dicembre, mentre il 21 febbraio sono stati pubblicati i dieci settori in cui si attendono i progetti su cui investire. Sanità, ovviamente al primo posto, ma anche il digitale, l’economia circolare (anche in relazione agli obiettivi dell’Agenda 2030 e della carbon neutrality da conquistare entro il 2050), oltre a infrastrutture e trasporti a ridotte emissioni. Ma la novità è il debutto ufficiale dell’European Innovation Council (Eic), l’istituto preposto a valutare e finanziare l’innovazione, che di suo ha a disposizione 10 miliardi di euro da gestire. È uscito dalla crisalide della sperimentazione alla fine del 2020 ed è pronto a spiegare le ali con l’avvio della nuova fase del programma.

Tra i membri del board, che dovrà vagliare chi finanziare e chi no, c’è anche un italiano, Roberto Verganti, cattedra di Leadership and Innovation alla Stockholm School of Economics, nonché di Integrated Design presso la Harvard Business School, e ancora co-fondatore del laboratorio Leadership, Design and Innovation del Politecnico di Milano, oltre a vari titoli pubblicati sull’argomento. Tuttavia, il compito che il professore ha davanti sarà arduo anche per una mente come la sua. In Italia c’è molto da fare, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco l’ha detto chiaramente a settembre scorso: il nostro Pil è tornato indietro ai livelli degli anni 80. Per il Covid, certamente, ma soprattutto perché non abbiamo fatto ricerca negli ultimi decenni. È possibile che il Paese di Dante, di Leonardo, di Colombo, di Fermi, di Volta, di Meucci abbia esaurito la sua scorta di ingegnosità? Oppure esistono ostacoli di altra natura che impediscono alle idee di fluire nella giusta direzione? Con il nuovo programma Horizon Europe e l’Eic che speranze abbiamo di uscire dalla stagnazione in cui versa la nostra economia da troppo tempo? Ecco cosa ne pensa il professor Verganti.

L’Italia è davvero la Cenerentola europea dell’innovazione, oppure è solo l’ennesima favola?L’Italia è un Paese ad altissimo tasso d’innovazione, ma indubbiamente abbiamo delle sfide davanti: la prima è la crescita industriale, perché a fronte di tantissima creatività non abbiamo imprese che nascono e crescono rapidamente, quelli che vengono chiamati gli “unicorni”. Nella Penisola sono animali rari. Esiste l’imprenditorialità, come è dimostrato dalle molte start up, che però fanno molta fatica a diventare grandi. Tutto ciò incide anche sulla forza innovativa delle idee. Quando abbiamo pubblicato i primi bandi nell’Eic nel 2019 e nel 2020 l’Italia, insieme alla Spagna, è il Paese che ha mandato più proposte di progetto, ma ne sono state approvate solo una piccola percentuale. Questo indica che la creatività è indirizzata nella direzione sbagliata, perché si tratta di proposte che non generano una reale innovazione, ma volte a implementare qualcosa che già esiste. Principalmente si tratta di piccole e medie imprese che cercano migliorie al proprio business, ma non aprono vere prospettive di sviluppo. Con un nuovo prodotto un’azienda può avere una crescita del 5-10% che va benissimo, sia chiaro, ma non genera l’impatto sul futuro che potrebbe avere – mettiamo – un nuovo Facebook o una nuova Amazon. Non c’è la spinta innovativa che può portare anche a una crescita del 30- 50%. In realtà non credo che ci sia la volontà di crescere in questa misura, l’imprenditoria italiana vuole rimanere piccola.

Eppure abbiamo avuto esempi brillanti di industriali illuminati e realtà importantissime. Cosa ci è successo? È un problema strutturale più che culturale, l’Italia non è un Paese favorevole alla grande industria, gli incentivi alle imprese sono pensati per scoraggiare la crescita, diventare grandi è poco conveniente. Il sistema delle tutele del lavoro non invoglia a superare certe dimensioni, cui determinati settori sarebbero destinati più di altri, come il digitale. Invece noi siamo più consolidati in ambiti tradizionali, in cui le possibilità di crescita sono ridotte. Penso all’artigianato ma soprattutto alla meccanica. Gli “unicorni” sono tutti nel settore del digitale e delle nuove tecnologie. L’unica eccezione degli ultimi anni è Tesla, che nel settore dell’auto è riuscita a creare un impero. Ma è, appunto, un’eccezione. Negli altri Paesi la gran parte dei nuovi posti di lavoro viene soprattutto da attività ad alto tasso di innovazione e da aziende in rapida crescita. Per affrontare efficacemente la disoccupazione, che è un altro grande problema dell’Italia, bisogna tenerne conto.

Ogni anno il World Economic Forum denuncia il gap formativo tra ciò che si studia e ciò che il mercato del lavoro chiederà da qui a cinque, dieci anni. La mancanza di una visione realmente innovativa deriva dalla formazione inadatta?Sì e no. In realtà la formazione italiana è eccellente, non per niente qui in Svezia moltissimi italiani sono chiamati a insegnare in istituti importanti. Quello che manca nella formazione italiana è il taglio imprenditoriale, siamo bravissimi a fornire conoscenza teorica, formiamo bravissimi tecnici ma non imprenditori. Io in Italia ho studiato ingegneria a livelli di altissima specializzazione, ma non ho mai preso in mano nemmeno un transistor…

Il presidente Draghi nel suo discorso alle Camere ha parlato chiaramente di pianificazione a lungo termine. Un buon segnale, direi. Draghi ha ragione e la pianificazione è fondamentale, abbiamo le risorse e sarebbe assurdo non farlo. Credo sia uno dei motivi per cui è nato questo governo. Pensare il futuro a dieci anni è già impegnativo perché il mondo cambia rapidamente, dieci anni fa nessuno avrebbe immaginato quello che sarebbe successo. Ma l’Italia va ristrutturata, ben venga il lungo termine.

C’è una specificità italiana su cui puntare per l’Innovazione? I migliori esempi sono le cosiddette “quattro F”, Food, Fashion, Furniture e naturalmente la Ferrari. Sono settori che sono riusciti a beneficiare della spinta digitale, pensiamo ai canali di vendita e ai servizi al cliente. La grande innovazione che in Svezia sta facendo Ikea riguarda appunto il digitale. Se ci fossero più incentivi alla crescita e investimenti sul digitale si vedrebbero risultati migliori. Ormai le infrastrutture ci sono, la banda larga arriva quasi dovunque, quello che ancora manca sono le competenze. I ragazzi che escono dal liceo non sanno fare un sito web, e oggi è un’assurdità. Sono barriere che ci distanziano dagli altri Paesi. Qui in Svezia la digitalizzazione è all’ordine del giorno.

L’anno di pandemia sarà una zavorra o uno stimolo per l’innovazione? Dipende solo ed esclusivamente da noi. Il potenziale ce l’abbiamo, con il governo che avevamo mi sento di dire che sarebbe stata una zavorra, con questo abbiamo delle speranze. Non c’è mai stato un apporto economico così importante dalla Comunità europea, se lo usiamo male sarà solo colpa nostra.

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Oltre a essere membro del Board dell’European Innovation Council, Roberto Verganti insegna Leadership and Innovation alla Stockholm School of Economics, nonché Integrated Design alla Harvard Business School. È, inoltre, co-fondatore del laboratorio Leadership, Design and Innovation del Politecnico di Milano