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Gusto

Il Pinot Nero parla toscano

Amatissimo da enologi e semplici estimatori, ma estremamente complicato da coltivare e lavorare, questo vitigno originario della borgogna ha trovato terra fertile nel nostro Paese

Misterioso e affascinante, sottile e trasparente eppure energico, mutevole e sensibile nei confronti del luogo in cui cresce, capace di sprigionare i profumi più arditi e sensuali del mondo del vino, ma estremamente complicato da coltivare e vinificare nel modo migliore: è facile capire come il Pinot Nero abbia un posto così speciale nel cuore degli appassionati. E tra questi mettiamo in primis gli stessi produttori di vino. Se escludiamo Alto Adige, Trentino, Appennino marchigiano e Oltrepò Pavese (dove viene perlopiù utilizzato come bollicina), la sorpresa del Pinot Nero italiano viene dalla Toscana, non nuova a infatuazioni per le uve francesi. Rispetto a Cabernet Sauvignon e Merlot, però, il Pinot Nero è molto più difficile da coltivare e gestire al meglio nel nostro clima mediterraneo: è necessario trovare luoghi e terroir che sappiano in parte ricreare il microclima fresco e umido della Borgogna. Qui i produttori partono dalla storica esperienza dei Marchesi Pancrazi in quel di Prato – con il loro Pinot Nero Villa di Bagnolo, che stupì tutti nel 1989 – e da quella chiantigiana di Ambrogio e Giovanni Folonari, che oggi producono il Cabreo Black dal vigneto che negli anni ‘90 vedeva nascere il “Nero del Tondo”. Oltre a loro, un ottimo Pinot Nero lo troviamo in Maremma, nel Montecucco, dove al Castello di Potentino nasce uno dei vini più interessanti da questa uva. Eppure i risultati migliori vengono oggi dall’Appennino toscano. Partendo da Ovest troviamo Casteldelpiano con Licciana Nardi, che in Lunigiana produce il Melampo con note di ribes rosso e nero ed erbe aromatiche; Podere Còncori a Gallicano (Garfagnana), che ne ottiene una versione molto dark e ombrosa; e Macea a Borgo a Mozzano.

Ci trasferiamo quindi nel Mugello, a Podere Fortuna: la scommessa di Alessandro Brogi di produrre vino di fronte allo storico Castello di Cafaggiolo è stato un grande successo, che ha visto arrivare anche i Tre Bicchieri del Gambero Rosso, sfiorati con il Fortuni e il Coldaia e ottenuti con il MCDLXV “1465” (vino poderoso eppure leggiadro, sottile di ribes rosso e lamponi ma anche carnoso e speziato). Molto vicino, ­a Vicchio di Mugello,­ nascono anche i vini de­ Il Rio di Paolo Cerrini, tra i precursori di questo vitigno negli anni ‘90, e Terre di Giotto dell’enologo biodinamico Michele Lorenzetti.

Si passa quindi alla vicina Dicomano, già nota agli appassionati per ospitare le denominazione Rùfina, la più alta dei Chianti: ­qui sono ben quattro le aziende che lavorano con il Pinot Nero. Fattoria Il Lago ne offre una versione agile e scattante con tratti complessi nel finale, Frascole sta per uscire con la sua prima annata molto promettente, mentre­ Voltumna ne produce addirittura due. Il Silene, il loro vino più strutturato, nasce con un moderato uso di raspi nella fermentazione, che hanno prodotto una bella struttura senza pesantezza e tannini legnosi (note di frutta di bosco varietali ben riconoscibili e intriganti). Ma il nome più famoso qui è quello di Frescobaldi, che vide le prime barbatelle di Pinot Nero arrivare in zona già nel 1855. Grazie alla sua intuizione, oggi nasce un grande metodo classico che porta il suo nome e il Pomino Pinot Nero (note di lamponi, fragole e floreale di rosa invitante, tocchi di speziatura e note di legno delicati che anticipano un palato piacevolmente stuzzicante).

Chiudono l’arco delle produzioni dell’Appennino forse i due vini più universalmente riconosciuti come i migliori di questa nouvelle vague toscana, ovvero quello di Podere della Civettaja di Vincenzo Tommasi e il Cuna di Federico Staderini, enologo storico e blasonato.