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Finanza etica: profitti sì, ma non a ogni costo

Come, dove e perché nasce questo concetto che va in contrapposizione a quello della “turbo-finanza” speculativa. Le emergenze sociali e ambientali impongono di riconsiderare le fondamenta anche del modo di investire i nostri risparmi

Mentre preparava le sue carte, l’avvocato Paul Neuhauser non immaginava di fare qualcosa che un giorno sarebbe entrato nella storia. Era il 1971 e, come ogni anno, la nota casa automobilistica statunitense General Motors stava chiamando a raduno migliaia di persone, per la consueta assemblea dei soci. In quell’anno, però, da alcuni azionisti arrivò una richiesta insolita: a presentarla fu proprio l’avvocato Neuhauser per conto di un’organizzazione non profit: l’Interfaith Center on Corporate Responsibility (Iccr), il centro Interreligioso sulla Responsabilità Sociale che, ai vertici di General Motors, avanzava una richiesta quasi rivoluzionaria, almeno per quei tempi: fino a che il Sudafrica non avesse abbandonato il suo vergognoso regime di segregazione razziale, il colosso dell’auto made in Usa avrebbe dovuto interrompere i rapporti economici con quel Paese.

Le origini della Finanza etica

La richiesta non fu accolta positivamente ma, nella patria del “business is business”, è oggi considerata una sorta di pietra miliare. Infatti per la prima volta, nell’azionariato di una multinazionale quotata in Borsa, qualcuno diceva ad alta voce che l’interesse degli azionisti non era soltanto quello di ottenere il profitto. Prima di tutto ci sono valori etici ai quali anche il cinico mondo della finanza deve adeguarsi. Molti osservatori attribuiscono proprio a quell’episodio della storia di General Motors le origini di quella che oggi viene definita nella comunità internazionale come “finanza etica”, cioè un insieme di attività di investimento che non hanno appunto come fine unico la realizzazione di un profitto in denaro, ma anche (e soprattutto) il rispetto di determinati valori morali e il miglioramento della società. A ben guardare, le radici della finanza etica sono forse ancor più profonde e risalgono ai primi investimenti sui mercati delle comunità religiose. Già nel 1928, per esempio, il Pioneer Fund di Boston propose agli appartenenti alla chiesa metodista alcune forme di investimento che escludevano le società impegnate in determinati settori come la produzione di alcool e il gioco d’azzardo, evidentemente incompatibili con i precetti della fede. Qualunque sia la data di nascita della finanza etica, una cosa è comunque certa: si tratta di un insieme di attività che ha ormai una lunga tradizione alle spalle e che negli ultimi 10-15 anni, soprattutto a partire dalla crisi grande delle borse del 2007-2008, ha vissuto una lunga fase di crescita, come contrappeso ai guasti provocati dalla “turbo- finanza” che 12 anni fa portò al fallimento della casa d’affari Lehman Brothers e gettò sull’orlo del baratro molte altre banche in tutto il mondo.

Finanza etica in Europa

In Europa, questo fenomeno si è sviluppato innanzitutto nel settore creditizio, con decine di istituti che si autodefiniscono banche etiche, poiché hanno inserito nel proprio atto costitutivo la finalità sociale dell’attività. Il che non vuol dire tuttavia che una banca di questo genere sia un’associazione non profit che chiude il bilancio in pareggio. Si tratta di società per azioni o più spesso cooperative che devono fare utili e remunerare i propri soci. Ma devono farlo sempre rispettando alcuni precetti stabiliti nello statuto: per esempio, non devono fare speculazioni fine a se stesse ma finanziare l’economia reale, non devono investire in società che sfruttano la manodopera o non rispettano le leggi di tutela dell’ambiente. Agire in questo modo, però, non vuol dire necessariamente rassegnarsi a incassare meno profitti. Anzi, gli analisti della Fondazione Finanza Etica, organizzazione che promuove i criteri di responsabilità sociale nel mondo finanziario, hanno dimostrato il contrario. Nel loro Terzo Rapporto sulla finanza etica e sostenibile in Europa è stato, infatti, messo in evidenza che le banche socialmente responsabili presentano una redditività maggiore degli altri istituti. Hanno per esempio un Roa (Return on Asset, cioè un rapporto tra l’utile netto e il totale dell’attivo) pari in media a 0,4%, contro lo 0,26% delle banche tradizionali. Inoltre, gli istituti etici sono maggiormente propensi a finanziare l’economia reale poiché l’incidenza dei loro crediti e dei depositi sul totale degli attivi e del passivo supera abbondantemente il 76%, contro il 40% delle altre banche. «Possiamo concludere», scrivono gli autori del Rapporto, «che le banche etiche e sostenibili operano decisamente a sostegno dell’economia reale (produzione di beni e servizi tangibili) mentre il sistema bancario europeo, in media, è più orientato all’economia finanziaria (investimenti in Borsa, vendita di titoli)».

Sistema bancario europeo e banche etiche

Va detto, però, che gli istituti di credito socialmente responsabili sono al momento un piccolo spaccato del sistema bancario continentale e hanno nel complesso un valore degli attivi di poco superiore ai 53 miliardi di euro. Cifre modeste, se si considera che soltanto in Italia due grandi gruppi come UniCredit e Intesa Sanpaolo hanno degli attivi superiori a 800-850 miliardi. Più imponenti sono, invece, le dimensioni che la finanza etica si è ritagliata nel settore del risparmio gestito internazionale, cioè nell’industria dei fondi comuni d’investimento e dei fondi pensione. È lì che gli investimenti socialmente responsabili stanno crescendo molto, con una evoluzione che ha portato alla nascita di un neologismo: Esg, un acronimo che deriva dalle parole inglesi enviromental (ambientale), social (sociale) e governance (che identifica la gestione manageriale delle aziende). Oggi chi amministra i fondi di investimento internazionali mette in atto sempre più spesso delle strategie Esg, cioè seleziona i titoli da inserire nel portafoglio soltanto se appartengono ad aziende che rispettano determinati standard nella salvaguardia dell’ecosistema e nell’impatto ambientale della loro attività, nel rispetto dei diritti dei lavoratori e della comunità circostante, nella trasparenza della governance che porta poi alla tutela degli azionisti e alla prevenzione di molti scandali finanziari come quelli degli ultimi anni che hanno visto non poche aziende accusate di truccare i bilanci. Oltre a non comprare i titoli che non rispettano determinati requisiti, però, i gestori dei fondi Esg fanno quello che fece nel 1971 l’avvocato Neuhauser: in qualità di azionisti delle aziende in cui hanno investito, i gestori prendono la parola nelle assemblee dei soci e chiedono ai manager di rendere conto di quel che hanno fatto per la tutela dell’ambiente, per il miglioramento della vita dei dipendenti o per rendere la governance ancor più trasparente.

Da Finanza etica a Finanza Esg

Dunque, partendo da principi religiosi, poi declinati anche in dottrina sociale, la finanza etica si è evoluta nei decenni diventando finanza Esg che ha lo scopo di raggiungere uno sviluppo economico sostenibile nel tempo e preserva le risorse del Pianeta, quelle naturali e quelle umane. Un contributo a questa evoluzione, oltre che dalla crisi finanziaria del 2008-2009, è arrivato naturalmente dai cambiamenti climatici, che oggi vedono impegnati nella lotta al riscaldamento globale le maggiori istituzioni internazionali, a cominciare dall’Onu. Sono proprio i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite che spesso fanno da cornice alle strategie d’investimento dei fondi Esg. Secondo Morningstar, società specializzata nell’analisi sui prodotti del risparmio gestito, il patrimonio dei fondi Esg a livello globale ha raggiunto nel 2020 il valore di 1.060 miliardi di dollari, il doppio rispetto a tre anni prima, ma è concentrato per lo più in Europa (870 miliardi di euro), mentre nelle altre aree geografiche. Mentre, secondo il Forum della finanza sostenibile, tra il 2017 e il 2018 la finanza climatica ha raggiunto flussi medi annui pari a 579 miliardi di dollari a livello mondiale con una crescita pari al 25%. Si tratta di numeri importanti anche se riguardo al futuro della finanza sostenibile c’è ancora un punto interrogativo che attende risposta: come si fa a stabilire con criteri oggettivi quando un fondo d’investimento mette davvero in atto delle strategie Esg? Molti osservatori paventano infatti il rischio di una sempre maggiore diffusione del greenwashing, un “ecologismo di facciata” con cui certe imprese (comprese quelle finanziarie) cercano a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, senza che ciò corrisponda a comportamenti reali. Su questo fronte, il 2021 sarà probabilmente un anno di svolta.

Nuove norme europee in arrivo

Nei prossimi mesi, infatti, entreranno progressivamente in vigore due nuove norme dell’Unione Europea che hanno appunto l’obiettivo di stimolare gli investimenti green e fare chiarezza su quali requisiti devono avere. La prima normativa importante è la tassonomia europea sugli investimenti sostenibili, che definisce con maggiore precisione quando un’attività economica può essere definita eco-compatibile e responsabile socialmente (per esempio, deve essere allineata a degli obiettivi di riduzione dell’inquinamento e di miglioramento della società). Entro il 31 dicembre di quest’anno, chi vende servizi finanziari dovrà specificare in appositi documenti informativi quanto i suoi prodotti sono allineati alla tassonomia europea. Inoltre, da marzo è entrato formalmente in vigore anche il nuovo regolamento europeo Sfdr (Sustainable Finance Disclosure Regulation), la cui applicazione reale dovrebbe però partire da gennaio 2022. Si tratta di un insieme di norme che impone agli operatori finanziari, comprese le società di gestione del risparmio, di pubblicare informazioni su come integrano i criteri di sostenibilità nelle loro politiche di gestione rischio e nei processi di investimento.

La lettera di Larry Fink, fondatore e Ceo di BlackRock

Si tratta di enunciazioni di principio importanti, anche se la loro applicazione necessiterà di un periodo di rodaggio. La speranza è ovviamente che tali principi non restino solo sulla carta e si traducano poi in cambiamenti pratici pure per gli investitori. La strada da percorrere è insomma è ancora tanta anche se nel gennaio del 2020 Larry Fink, fondatore, Ceo e presidente di BlackRock, la più grande casa di investimenti al mondo, ha inviato la sua consueta lettera annuale ai manager del gruppo scrivendo parole che sembrano destinate a rimanere scolpite nella pietra: «Siamo vicini a una completa trasformazione della finanza», ha detto Fink, sostenendo che i cambiamenti climatici impongono agli investitori di riconsiderare «le fondamenta della finanza moderna». E se lo dice lui, che guida una società con oltre 7 mila miliardi di dollari patrimonio, c’è da credere che qualcosa davvero stia cambiando nel profondo.

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