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Sneaker: il punto su un mercato che fa gola a molti

Due giganti, Nike e Adidas, dominano il mercato. Ma quello delle classiche “scarpe da tennis” è ormai un fenomeno di massa che fa gola a molti e ha trasformato delle comode calzature in un’industria in crescita impetuosa. Oltre che in strumenti di investimento

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Scena 1, Secaucus, New Jersey. In un enorme magazzino, una ventina di commessi ispeziona scarpe. Gli addetti controllano le scatole, esaminano scrupolosamente la para, i lacci, le cuciture, il simbolo del brand e ne annusano l’odore. Scena 2, Milano piazza della Moscova, ore 7 del mattino. Un gruppo di ragazzini attende l’apertura di un negozio in cui compreranno l’ultimissimo modello di un paio di scarpe da tennis, con la stessa pazienza di fan che aspettino l’apertura dei cancelli a un concerto. Questi due frame sono in realtà tessere dello stesso mosaico che, una volta composto, svela i contorni della sneakermania, un fenomeno sociale, culturale e soprattutto economico. Questa passione irrefrenabile per le sneaker, cioè per delle scarpe sportive ma da passeggio, ha infatti generato start up, applicazioni mirate, come Nike SNKRS, nuovi modelli di business, media specializzati come il magazine Nice Kicks (kicks, calci, è come vengono chiamate in gergo queste scarpe, ndr) o snkrINC, raduni come Sneakerness e Sneaker Con, rispettivamente in Europa e negli Usa, nonché nuove figure professionali.

Secondo un’analisi di Global Info Research, nel 2019 questo mercato ha totalizzato circa 70 miliardi di dollari e, entro il 2024, mantenendo un tasso di crescita annuale del 6,5%, potrebbe superare i 100 miliardi. Una torta enorme che, tuttavia, viene spartita in buona parte da due soli invitati in particolare, Nike e Adidas, anche se il numero di sfidanti è cresciuto. I più importanti brand nel campo della moda, infatti, hanno da tempo ideato e proposto i propri modelli di sneaker, che ormai valgono da sole un buon 40% del mercato delle scarpe nel mondo. In apparenza, si tratta di un settore che garantisce ampi margini di profitto. In fondo, si tratta di scarpe che vengono vendute a un prezzo che oscilla tra i 70 e i 200 dollari, ma costano molto meno, anche perché sono tutte made in China. La Nike, per esempio, nel 2014 aveva rivelato di sostenere un costo pari a 27,5 dollari a paio, cui andava aggiunto un dollaro di spese di spedizione, per un totale di 28,5 dollari. Il resto è tutto profitto?

No, perché costruire e alimentare la sneakermania costa parecchio. Si parla di marketing, che è ciò che fa davvero la differenza. La prima a capirlo fu proprio la società con sede in Oregon, che nel 1984 lanciò le Air Jordan, scarpe progettate intorno al suo testimonial, la divinità del basket Michael Jordan, lanciata con uno spot firmato da Spike Lee e divenuta una linea iconica a sé stante. Jordan, in questo modo, fece il suo canestro più importante. Ritiratosi dall’attività agonistica nel 2003, ha chiuso il 2019 dichiarando un reddito di 145 milioni di dollari, buona parte dei quali provenienti dal colosso dello sportswear.

Col tempo, il fenomeno sneaker ha varcato i confini del mondo dello sport ed è diventato qualcos’altro, parte della cultura di massa. Lo dimostra il forte legame che si è stabilito tra la cultura pop in senso lato e il mondo dello streetwear. La tedesca Adidas, per esempio, per insidiare il primato della Nike, nel 2015 le ha sfilato il testimonial più prezioso, il rapper Kanye West, titolare della linea Yeezy, successo clamoroso e che oggi vale più di un miliardo di dollari. Allo stesso modo, il brand ha puntato su una macchina da hit come Pharrell Williams e ha deciso di scommettere su Ivy Park marchio lanciato da Beyoncé, altra artista dal potenziale economico molto promettente. Solo per stare negli Usa, vanno inoltre ricordate le collaborazioni di Adidas con Snoop Dogg e Missy Elliot, quelle di Puma con Big Sean, Jay Z e Rihanna, di Converse con Wiz Khalifa, in un mix perfetto tra arte, moda e marketing che era stato preannunciato negli anni ‘80 dal brano My Adidas, dei Run DMC.

Più che una moda passeggera, si tratta di un fenomeno culturale e l’arte non poteva starne lontano. Le incursioni di quotati artisti nel mondo delle sneaker sono sempre più frequenti, come dimostra l’edizione limitata di scarpe Vans impreziosite da fantasie ispirate alle serie anime di Takashi Murakami, oppure, più di recente, il modello Mars Yard Overshoes della linea Nike Craft, firmata da Tom Sachs, che ha reso omaggio alla missione su Marte organizzata dalla Nasa. Adidas, per parte sua, ha affidato a 50 artisti diversi il compito di ideare un modello dedicato a ciascuno degli Stati Usa. Collaborazioni interessantissime che, però, un po’ sbiadiscono rispetto a quelle che Reebok siglò con mostri sacri come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat o che Converse realizzò con uno degli artisti più influenti di sempre, Andy Warhol. In questi casi, è difficile parlare di scarpe e si entra nel campo dell’arte. E, infatti, un modello Converse firmato da Damien Hirst e ispirato alla sua opera del 2009 All You Need Is Love Love Love, è stato venduto da Sotheby’s per 2,4 milioni di dollari. E così, alle sneaker sta accadendo quello che è già capitato a quadri e sculture: hanno smesso di essere oggetti con un valore e un’utilità specifica e sono diventati strumenti di investimento. Vengono cioè comprate non per essere calzate, ma per essere rivendute.

Agli estimatori e collezionisti, che c’erano e ci sono ancora, complici i social media si sono aggiunti fanatici interessati non tanto all’oggetto in sé, quanto alle possibilità di lucro che esso offre. Il problema è che il confine tra investimento e speculazione è labile e lo si attraversa senza accorgersene. Così è fiorito un ricchissimo mercato secondario, attorno al quale si è sviluppato un indotto non trascurabile per struttura e valore. Si tratta di un boom sostenuto da una domanda che sembra inesauribile perché, come sempre accade con le bolle, gonfiata da una fiducia sconfinata nel costante aumento dei prezzi. Il fenomeno ha assunto dimensioni tali da generare un suo sistema commerciale/economico. In origine, le scarpe venivano rivendute in piazze virtuali come eBay ma questo lasciava più di un varco aperto ai contraffattori. L’esigenza di fare acquisti sicuri ha portato alla nascita di una catena specializzata come Flight Club, inaugurata nel 2006 e diventata La Mecca di tutti gli sneakerheads. Lavorava qui John Mc Pheters che, con Jed Stiller, ha avuto l’idea di creare un posto simile in rete, fondando così Stadium Goods, altro nome imprescindibile della sneakermania, piattaforma per comprare scarpe rare in assoluta sicurezza, forte di due store a New York ma soprattutto di un enorme magazzino nel New Jersey da cui gli ordini partono in tempo reale. Accanto a esso, sono fioriti mercati secondari virtuali come GOAT, Kixify, o StockX, i cui specialisti stimano il valore del comparto reselling sui 6 miliardi di dollari, con prospettive di crescita comprese tra il 15 e il 25% entro il 2025. Si tratta di società che garantiscono tanto gli acquirenti quanto i venditori e si arricchiscono grazie alle commissioni pagate dalle due parti. Le cifre che si possono guadagnare con una spesa minima sono importanti. Per esempio, le Nike Lunar Flyknit Milano HTM, alle quali ha lavorato il designer giapponese Hiroshi Fujiwara, messe sul mercato nel 2012 nelle sole città di Londra, New York, Milano e Tokyo al prezzo di 150 dollari, sono state vendute per 5.850 dollari, con una rivalutazione del 3.800%. Il modello Bapesta Line, risultato della collaborazione tra Kanye West e il marchio giapponese A Bathing Ape, del 2006, costavano 180 dollari ma oggi si trovano anche a 5 mila (+2.678%). Le Kanye West (sempre lui) per Louis Vuitton possono costare anche 30 mila dollari, ma erano già in origine un prodotto di lusso, con un prezzo di vendita di 1.140 dollari. Il loro valore è comunque cresciuto del 2.532%. Niente male, anche se nulla in confronto alla rivalutazione (8000%) del modello Nike SB What the Dunk, passato dai 120 ai 5 mila dollari.

La sneakermania è un fiume dal flusso impetuoso. Nel magazzino Stadium Goods arrivano 2.200 paia di Yeezy 350 al giorno, che vuol dire 66 mila al mese e 792 mila l’anno e qui si sta parlando di una sola linea di un solo brand e di un solo reseller. Valutate globalmente, le dimensioni del fenomeno sono incredibili. Così come sono i guadagni che società come le piattaforme di intermediazione possono fare chiedendo commissioni tanto a chi vende quanto a chi compra, finite inevitabilmente nel mirino di gruppi più grandi. Stadium Goods, per esempio, è stata comprata da Farfetch per 250 milioni di dollari, mentre Foot Locker si è assicurata una quota di GOAT con un investimento di 100 milioni di dollari. StockX, invece, è arrivata a valere un miliardo di dollari e a giugno ha reclutato come Ceo l’ex vicepresidente per le Americhe di eBay, Scott Cutler.

Questo bengodi durerà ancora a lungo? Non è detto, il momento d’oro dello streetwear – entro i cui confini è fiorita la sneaker culture – potrebbe finire presto. Ne è convinto Virgil Abloh, designer di Off-White, uno dei primi creativi ad aver portato in passerella questo stile. Inoltre, è probabile che attirati da tali possibilità di profitto siano gli stessi brand a prendere le redini del reselling, costruendo canali autonomi e sfruttando la fedeltà della propria community, sostituendosi agli attuali intermediari. Dopotutto, chi meglio di loro potrebbe garantire l’originalità di una scarpa? Grandi player come Adidas, Nike, Under Armour e Vans potrebbero stancarsi presto di farsi fare le scarpe da StockX et similia.

Credits Images:

Il rivoluzionario modello Nike Adapt BB, scarpe che si allacciano da sole grazie a sensori collegati allo smartphone