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Tim Harford: viva il caos creativo!

Bando a regole ferree e schemi, per dare il meglio di sé l’essere umano ha bisogno di libertà mentale. Benjamin Franklin, Brian Eno e Jeff Bezos lo confermano, come spiega l’economista e autore del libro “Che casino!”

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Quanti di noi, da bambini, si sono sentiti dire che l’ordine è importante e si sono presi qualche sgridata dai genitori per il caos che regnava nella propria cameretta? Pressoché tutti. E crescendo le cose non sono cambiate: a casa o in ufficio il mantra generalizzato è sempre lo stesso: categorizzare, sistemare, pianificare… Oggi a “salvare” i casinisti cronici è arrivato Tim Harford: economista, docente, editorialista del Financial Times, e autore di Che casino! (Egea), un libro che esalta il disordine come strumento fondamentale per tirare fuori il meglio di noi stessi e che è il risultato di ben cinque anni di lavoro. E pensare che all’inizio l’idea era semplicemente studiare le possibilità di collaborazione tra le diverse discipline accademiche. «Più approfondivo la questione, più realizzavo che le categorizzazioni spesso creano problemi, perché causano una mancanza di flessibilità», spiega. «Così ho finito per interessarmi a tutte quelle situazioni difficili da ordinare per categorie, in cui siamo costretti a inventarci qualcosa di nuovo».

Terminato il libro si ha un po’ l’impressione che sia una sorta di “ode dell’imprevisto”, è d’accordo? Sì, basti pensare alla storia su Keith Jarrett che cito nell’introduzione: costretto a suonare un pianoforte pessimo, finisce col produrre il capolavoro della sua vita. E le imperfezioni dello strumento di fatto lo hanno aiutato. È umano, quando le cose vanno storte, vivere la cosa come un problema, ma ora cerco sempre di chiedermi se quell’avvenimento imprevisto nasconda un’opportunità. Poi, ovviamente, a volte si tratta di un problema da risolvere e basta (ride).

In pratica, lei sostiene che gli eventi inaspettati possono spingerci a fare meglio. C’è un modo per costringerci a uscire dalla nostra comfort zone senza stare ad aspettare l’inaspettato?Ci sono almeno tre cose che possiamo fare. Innanzitutto, notare che la vita cerca sempre di spingerci al di fuori della nostra comfort zone e, di conseguenza, quando questo accade, cogliere al volo la sfida. Secondo, lavorare con persone nuove o diverse da noi, magari scegliendo in particolare quelle che non riusciamo a comprendere completamente: può metterci a disagio, ma aiuta a imparare cose nuove e a far germogliare idee. Infine, si possono sfruttare alcuni strumenti appositi, per esempio le carte delle “strategie oblique” (oggi disponibili anche in forma di app) che usava anche il musicista Brian Eno. Basta pescarne una e provare a interpretare il consiglio che riporta.

Ma lei li segue questi consigli? Ci provo. Per esempio, ho iniziato a usare le “strategie oblique” quando venni invitato a un programma radiofonico americano chiamato Planet Money. A sorpresa, mi chiesero di inventare un modo semplice e interessante per parlare del premio Nobel per l’economia appena assegnato. Così, su due piedi, la prima cosa che mi venne in mente fu tirar fuori le carte. Ne estraemmo una che diceva “non costruire un muro, inizia da un solo mattone”. Da qui l’idea di concentrarci su un dettaglio interessante: uno dei vincitori aveva cambiato idea su una questione importante, perché non raccontare come e perché questo era avvenuto? Da lì ripetemmo l’estrazione per altre due volte.

Come conciliare l’esigenza di specializzazione sempre più forte nella nostra società con lo sguardo fresco indispensabile per stimolare la creatività? Mi vengono in mente due cose. Primo, oggi specializzazione significa gruppi di lavoro e possiamo sfruttare questo fatto per ampliare le nostre prospettive. Lavorare con altre persone, meglio se con esperienze e specializzazioni differenti dalle nostre, è una fonte di ispirazione creativa. Secondo, anche chi è specializzato in un campo, deve comunque guardare al di fuori dal proprio settore e imparare cose nuove. Si chiama cross training ed è un concetto molto familiare per gli sportivi che, per esempio, anche se corrono maratone sono abituati a fare esercizio anche con i pesi. A questo proposito, vorrei citare un recente studio condotto a Filadelfia su un gruppo di studenti di oculistica. Ad alcuni di loro è stato fatto seguire un corso di arte, ad altri no. Alla fine è emerso che coloro che avevano frequentato il corso si rivelavano anche più bravi nella diagnostica per immagini. Incredibile vero?

Qual è il suo esempio preferito sull’utilità del caos? Benjamin Franklin. Ambasciatore, politico, inventore. Quando era ancora molto giovane, decise di mettersi al lavoro per migliorare se stesso e mise nero su bianco una serie di buoni propositi: berrò meno, sarò più casto, perdonerò le persone che mi faranno arrabbiare, sarò più ordinato, e via dicendo. Facendo un bilancio, negli ultimi anni della sua lunga vita, si crucciava perché non era mai riuscito a tenere in ordine la scrivania. Lo ritengo un grande esempio di come per noi sia difficile vedere come in realtà ordine e disordine siano una questione superficiale. Sono sicuro che il fatto che sia stato un così grande uomo fosse connesso con il suo disordine, perché di sicuro non aveva il tempo per mettere a posto quando era sempre preso da nuove idee e progetti.

E se le chiedessi un esempio tratto dalla sua esperienza personale? Sono molto interessato al public speaking fin da quando ero piccolo e a scuola ho partecipato a diverse competizioni. Ero sempre nervoso, perché temevo di dimenticare il discorso. Poiché era ammesso portare con sé solo un cartoncino 9×15 cm, sfruttavo il vantaggio di avere in casa uno dei primi computer per scrivere l’intero discorso in caratteri microscopici su entrambi i lati del foglio e poi usavo degli evidenziatori di diversi colori per rendere il tutto più leggibile. In questo modo dovevo semplicemente leggere, eppure non prendevo mai buoni voti. Poi un giorno, mentre parlavo, la scrittura era così piccola che non riuscii proprio a capire cosa avevo scritto, così alzai lo sguardo e proseguii senza più guardare. E alla fine ottenni il voto più alto che avessi mai preso. Non so quante persone mi avessero consigliato già in precedenza di farlo, ma non li ascoltavo perché avevo troppa paura. A volte bisogna forzarsi e lasciarsi andare. Il più delle volte la troppa organizzazione rischia di fare solo danni, non ti rende certo migliore.

Ci sono aziende che hanno dimostrato di comprendere il valore della “disorganizzazione”?Un caso esemplare è Amazon, almeno alle origini. Bezos aveva ben chiaro di essersi imbarcato in un’impresa difficile e che doveva muoversi in fretta, perché le grandi aziende come Barnes & Noble o Toys’R’Us sarebbero sbarcate sul Web molto presto. Non c’era tempo per fare tutto per bene, perciò hanno improvvisato come potevano, tutti erano sovraccarichi di lavoro, a Natale i lavoratori degli uffici andavano a dare una mano in magazzino e i sistemi chiedevano se si trattasse di un libro in edizione economica o con copertina rigida anche quando avevano a che fare con altri oggetti. Ma rallentare e rendere tutto perfetto non era un’opzione, le indicazioni erano semplicemente di correre. Non bisognava sprecare tempo per comunicare, ma agire e basta. Nel 2001-2002 Amazon era un vero casino! Ma nel frattempo Barnes & Noble, Toys’R’Us e compagnia erano nel panico proprio perché Amazon si muoveva così velocemente. Poi, certo, la vera domanda è quante persone in Amazon abbiano una tale libertà oggi.

Come potrà trovare spazio il “caos creativo” che lei esalta in un futuro dominato da tecnologie e A.I.?Guardi, quando nel 1979 vennero inventati i fogli di calcolo digitali, si diffusero rapidamente, togliendo ai contabili buona parte del lavoro svolto fino ad allora. Ma questo non ha fatto sparire quella figura, ha solo reso il loro lavoro più interessante, visto che sono passati dai meri calcoli alle previsioni di scenario. Ecco, credo che sia un buon esempio di come generalmente l’arrivo delle nuove tecnologie tolga all’uomo la parte noiosa del mestiere, rendendolo più creativo. Questo è quanto spero che accada. Quello che, invece, mi fa paura è un ipotetico futuro che veda gli esseri umani impegnati a diventare più simili ai robot per adeguarsi ai computer.