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Filippo Agnello (Mattel): Tutti leader nel mio team

Filippo Agnello, laurea in Ingegneria nucleare e Mba presso la Sda Bocconi di Milano. Con un curriculum così, fare carriera è quasi un destino. Oggi Agnello, 45 anni, è amministratore delegato di Mattel Italia, la filiale italiana della multinazionale del giocattolo che comprende brand come Barbie, Hot Wheels e Fisher-Price. In Mattel è entrato nel 2002 (dopo diversi anni presso un’altra multinazionale, la Sara Lee Corporation) dapprima come responsabile Modern Trade e poi come direttore vendite e, nel 2006, il grande salto alla carica di capo-azienda, prima in Mattel Polonia e poi dal 2008 in Italia. Il fattore che più stupisce di Agnello è la sua attenzione verso la crescita professionale dei collaboratori: «Sì, vedo crescere davanti a me i futuri manager e questa è la cosa che più mi soddisfa perché è la miglior premessa perché il successo di oggi sia replicabile anche domani.

Lei è laureato in Ingegneria nucleare. Qual è stato il percorso che da questa tappa formativa la portata ai vertici di una multinazionale come Mattel?Ho sempre avuto una grande passione per i numeri e da qui la scelta della facoltà di ingegneria che mi sembrava avesse un taglio anche pratico. Dopo la laurea ho anche lavorato come ingegnere per un paio d’anni ma quello che mi mancava era un’interfaccia con il mondo delle aziende. Svolgevo attività professionale molto di nicchia, stimolante ma con una crescita troppo specifica. In quel periodo venni a conoscenza di corsi Mba che offrivano la possibilità di completare la propria formazione e che erano anche molto efficienti perché in poco più di un anno si riusciva a completare un percorso di studi piuttosto intenso e complementare ai miei studi precedenti. Così mandai la domanda in Bocconi e cominciai. Presi il coraggio a due mani e, nel 1992, lasciai il lavoro e mi rimisi a studiare. Fu la scelta migliore che potessi fare perché ritrovai in quel percorso di formazione tutte le cose che mi aspettavo e passai un periodo molto arricchente da un punto di vista personale. Studiai una decina di mesi in Bocconi e poi altri sei mesi negli States. A dicembre 1993 ritornai in Italia e di lì a poco entrai come brand manager in Sara Lee Corporation Div. Playtex a Roma.

Fu un’esperienza positiva per la sua carriera?Fu un’ottima scelta perché in azienda incontrai manager che si rivelarono decisivi per la mia formazione personale e che oggi ritrovo ad altissimi livelli in altre aziende. Era un momento particolare perché in Sara Lee erano allora presenti numerosi talenti e il contatto quotidiano con queste persone era per me un momento di arricchimento e sviluppo professionale enorme. C’era un’attenzione e una dedizione allo sviluppo della persona attraverso un coaching importante. Il mio capo mi dedicava molte ore al giorno e finiva per far tardi la sera solo per il suo desiderio di farmi crescere. Dava molta responsabilità e chiedeva però anche altrettanta intensità. Questo periodo mi ha segnato per sempre: mi ha fatto capire quanto sia importante per ciascun capo considerare le proprie risorse come una forza da “allevare” e alle quali trasferire la maggiore quantità possibile di esperienza.

Perché ha lasciato Playtex?Dopo quattro anni avevo accumulato una buona esperienza nel marketing e desideravo sperimentarmi in qualcosa di diverso. Avevo l’opportunità di trasferirmi in Playtex Germania con loro, ma mi venne allo stesso tempo proposto un passaggio in Liabel, nuova acquisizione di Sara Lee. Scelsi questa opzione perché di nuovo vidi che potevo confrontarmi con manager importanti e poi c’era un mercato che ancora, almeno in parte, non conoscevo soprattutto relativamente alla struttura del trade. Dopo altri quattro anni Sara Lee, nell’ambito di una razionalizzazione dei brand del loro portafoglio, cedette Liabel a un’azienda francese. Si chiudeva un’altra fase della mia vita. Puntavo a lavorare in aziende multinazionali, per il più ampio respiro, per la possibilità di esprimersi ed essere valorizzati. A questo punto siamo già al 2002 e si apre il capitolo Mattel.

Qual è il bilancio dei due anni da amministratore delegato?Superiori a quelle che erano le mie aspettative, già molto alte, e questi risultati li devo al mio team. Se c’è un filo conduttore in tutta la mia esperienza è di avere sempre lavorato con persone incredibili e di grande talento. Credo fermamente che il successo di un’attività oggi sia legato anzitutto al team. Ho anche avuto un punto di vista privilegiato. Per qualche anno infatti ho guidato la filiale Mattel in Polonia e da qui potevo osservare la realtà italiana con distacco e distanza. Quando sei immerso nella tua realtà lavorativa non vedi i dettagli e a volte puoi mancare di prospettiva. Invece poter osservare a distanza un contesto che conoscevo bene mi permise di prendere subito delle decisioni chiave con serenità.

Quali sono state queste decisioni?In sostanza ho lavorato su tre fronti. La prima riguarda la formazione del team con tutta una serie di processi di valutazione e sviluppo che ci hanno aiutato molto. In secondo luogo ho portato avanti un orientamento al sell out, posto al vertice delle nostre priorità. Terzo: i processi. Questo è un business nel quale bisogna pianificare bene per avere successo e abbiamo assegnato più risorse proprio nella pianificazione ridisegnando il processo in maniera sostanziale. Questo ci sta permettendo, da una parte, di servire molto meglio i nostri clienti e, dall’altra, di avere una gestione finanziaria più efficace.

In una multinazionale americana come Mattel quali sono le leve più importanti per motivare il team?Sono fortunato perché le persone che lavorano con me sono già motivate e traggono energia dal lavoro che fanno con passione. Penso che le persone debbano sentire di portare avanti con ragionevole autonomia il proprio lavoro sentendosi responsabili delle loro decisioni e credo sia necessario dedicare molto tempo all’ascolto, aspetto che si può sempre migliorare. Credo che nel mio ruolo un’attività importante sia quella di mettere chiunque in condizione di lavorare al meglio rimuovendo ostacoli che il quotidiano presenta, soprattutto in una multinazionale, dove i processi possono talvolta tendere a imbrigliare rallentando l’esecuzione delle attività. Quando sono tornato in Italia ho scelto di posizionare il mio ufficio al piano del team commerciale dove era maggiore il bisogno di allineamento e non al piano superiore dove era storicamente ubicato l’ufficio dell’amministratore delegato per condividere più facilmente il lavoro, avere la porta aperta e confermare la mia disponibilità. Credo sia fondamentale. Ci tenevo a poter essere avvicinato e accogliere i messaggi che arrivano. D’altra parte sto facendo quello che altri hanno fatto con me.

Quali sono le qualità che più apprezza nel suo team?Apprezzo moltissimo l’etica professionale che è la base di tutti i rapporti. Poi l’entusiasmo, la proattività, la voglia di mettersi in gioco, di contribuire. Il mio team è un team di leader.

LE PASSIONI DI FILIPPO AGNELLO

LibroTrilogia di Asimov

Programma TvGiochi a quiz

HobbyBridge

FilmUn giorno di ordinaria follia

LuogoNew York

SquadraLazio

MusicaPink Floyd (Wish you were here)

PiattoPasta ai frutti di mare

AutoMini Cooper (vecchio modello)

Come ci si costruisce una posizione ai vertici di una grande azienda?Ho lavorato tanto. Ci sono sempre delle eccezioni, ma la regola penso sia questa. È difficile poter fare strada senza lavorare sodo. Ho sempre guardato avanti con ambizione ma anzitutto cercando di fare molto bene quello che stavo facendo. È difficile crescere senza eccellere in ciò che si sta facendo. Questo non sempre è sufficiente, perché non si deve scambiare la performance con il potenziale, ma è una condizione necessaria per farcela. Cercare di mettersi in gioco e credere in quello che si fa. Credo comunque che il nostro debba essere anche un percorso di grande umiltà perché è un percorso in cui la crescita è infinita e c’è sempre da imparare. Bisogna cercare di guardare con curiosità a ciò che ci circonda, guardare a chi è più avanti di noi e capire che cosa lo rende così efficace nel suo lavoro.

Che cosa differenzia l’industria del giocattolo dalle altre?Questo è un mercato molto complesso che richiede di raggiungere numerosi e differenti target di acquisto e di consumo. Ha una forte stagionalità dei consumi nel periodo natalizio, necessità di innovazione costante e di innumerevoli referenze e, come se non bastasse, si lavora con una molteplicità di canali di vendita che sono tutti da monitorare. Questo mix rende il business estremamente complesso ma è anche ciò che lo fa effervescente e stimolante.

Rispetto alle aziende nelle quali ha lavorato, che livello di autonomia si respira in Mattel?Chiaramente il contesto impone che si accetti l’idea di decisioni spesso concertate. Detto questo però ho trovato grandissima possibilità di espressione e questo è uno degli elementi cardine per la motivazione delle persone. È difficile avere “engagement” senza “enpowerment”. Questo è il clima che ho sempre trovato sia in Sara Lee sia in Mattel. Realtà nelle quali le persone contribuiscono perché sentono che quello che dicono conta. Mattel è un’azienda globale dove ci sono tantissimi interlocutori. Bisogna gestire questa molteplicità di interessi e trovare i criteri giusti per generare decisioni che siano le più giuste per l’organizzazione nel suo complesso. Ma questo non fa altro che ampliare la visione di un manager.

Come è cambiato il posizionamento di Mattel con l’espansione dei videogame sul vostro target? Proverete a investire nel mondo virtuale?Oggi sembra che questa espansione si sia un po’ fermata. Gli ultimi dati parlano di un consolidamento del giocattolo tradizionale e di arretramento dell’elettronico. Il livello dei consumi del giocattolo non arretra, il mercato è stabile, anno dopo anno ripropone il proprio valore e anche in momenti difficili tiene bene. Mattel comunque sta guardando al futuro con una visione nuova e siamo passati dal voler essere “The premier toy company today and tomorrow” al “Creating the future of play”. Una visione per i prossimi 10 anni dove non c’è la parola giocattolo, ma c’è la parola gioco. È una visione che allarga gli orizzonti e non sappiamo dove ci porterà ma è molto stimolante e dischiude molte possibilità. È presto ora per dire cosa succederà nella pratica, ma certamente guarderemo al futuro non solo concentrati sul giocattolo tradizionale. In fondo la nostra ragione di esistere è sempre stata quella di far divertire i bambini e tutto ciò che fa e farà divertire i bambini sarà, domani ancora più di oggi, oggetto del nostro interesse.

Esiste a suo parere una ricetta anti crisi?Non so se ci sia una ricetta vera e propria. So che nei momenti di crisi bisogna osare. Fare scelte un po’ più coraggiose e prepararsi con più tenacia al momento in cui le cose miglioreranno. Quando le cose vanno bene è molto raro trovare il coraggio di svoltare. Certo bisognerebbe saper cambiare comunque dove è necessario, e non essere costretti a farlo, ma pochi riescono a farlo. La crisi in questo senso è un’opportunità.

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Filippo Agnello