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Lifestyle

Slow fashion, fast distribution: la nuova tendenza della moda

Da New York parte la rivoluzione in passerella: anche le creazioni dell’haute couture saranno acquistabili a poche ore dalle sfilate, senza dover aspettare mesi per l’arrivo nelle boutique. Il mondo delle griffe si inchina ai tempi delle grandi catene low cost, ma l’Italia si ribella

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See now, buy now. In queste quattro parole è racchiusa la nuova rivoluzione che la moda è pronta ad accogliere e sulla quale da mesi dibattono tutti i principali attori del fashion system, dai grandi gruppi del lusso fino alle aziende tessili, passando per retailer e distributori. Perché dopo la favola dell’haute couture e della sartoria su misura, e l’avvento dell’industrializzazione del fashion con il prêt-à-porter, la moda oggi vuole essere ready to buy: vista oggi sulle passerelle, e acquistabile già poche ore dopo. Tutto secondo una logica on season, senza quindi dover attendere sei mesi dalla presentazione all’arrivo della collezione in boutique.Accorciare i tempi di produzione, presentare i capi in stagione e non quasi un anno prima: detta così, sembra di parlare di un concetto industriale non tanto differente dal pronto moda, quella modalità inventata proprio dalle aziende di abbigliamento italiane tra gli anni Sessanta e i Settanta e diventata un modello di riferimento per i colossi del fast fashion come Zara e H&M. Tempistiche di produzione ridotte, collezioni che si rinnovano di settimana in settimana, strizzando l’occhio alle tendenze delle passerelle ma con uno scontrino medio decisamente inferiore. Possibile che le griffe e le maison di alta moda vogliano adeguarsi a un modello industriale di questo tipo, dopo aver sottolineato per anni la linea di demarcazione tra sogno – il loro – e realtà, quella dei marchi high street?

EFFETTO WEBA influenzare queste nuove dinamiche è un fenomeno che finora il sistema moda era riuscito tutto sommato a contenere e contrastare: internet. Fino agli anni Dieci del Duemila erano solamente i siti dei magazine a diffondere le immagini delle sfilate, mentre Facebook e Twitter, basandosi ancora più sulle parole che su foto e video, non riuscivano a influenzare le aziende più di tanto. È con l’avvento di social network come Instagram e Snapchat, di tecnologie come lo streaming per le sfilate e della crescita dei portali di e-commerce come Zalando, Yoox e Net à porter (quest’ultimi due divenuti poi un unico colosso) che la moda avverte l’esigenza di riscrivere il proprio rapporto con i consumatori, di diventare più immediata e fruibile.

NON HA PIÙ SENSO SFILARE

CON QUATTRO MESI DI ANTICIPO:

A SOSTENERLO SONO I PLAYER

CON UNA FORTE PRESENZA NEL RETAIL

Se lo stile resta, la moda cambia e si interroga su come non farsi fagocitare dalle nuove dinamiche di comunicazione. A raccogliere la sfida è stata la New York Fashion Week, che lo scorso dicembre ha commissionato a Boston Consulting Group uno studio per capire come ripensare il ritmo commerciale delle proprie collezioni. Sette settimane, da Natale a primavera, per capire se sia meglio votarsi completamente al concetto del see now, buy now o se invece continuare a privilegiare un sistema dalle tempistiche più ampie, dando più importanza alla creatività e alla ricerca che all’immediatezza. «I consumatori sono confusi nel fruire a settembre un prodotto che potranno acquistare solo dopo sei mesi», ha spiegato Diane von Fürstenberg, presidente del Cfda, la Camera della moda americana. «Pensiamo che le sfilate debbano essere maggiormente vicine alle esigenze dei clienti». Una sensazione che già la London Fashion Week aveva voluto sperimentare da diverse stagioni con il London Fashion Weekend, formula rivolta ai consumatori: «Da tempo discutiamo sulla linea sottile che si crea tra questo evento e le tradizionali sfilate, dal momento che i designer aumentano l’engagement dei consumatori con i social o trasmettendo in live streaming show e presentazioni. In futuro saranno sempre più i marchi a decidere di sfilare on season, ma dobbiamo garantire che le aziende che fanno delle fashion week una strategia per raggiungere nuovi partner commerciali e i media possano continuare a farlo», ha spiegato il Ceo del British Fashion Council, Caroline Rush.Molti dibattiti, ma nessuna presa di posizione specifica. Come in tutte le grandi rivoluzioni, c’è bisogno di un leader che scardini i modelli precedenti. E il Martin Lutero della moda si chiama Burberry, il colosso britannico che alle sfilate di Londra, esattamente la sera del 19 settembre, ha dato il via alla sua strategia ready to buy: due collezioni l’anno denominate “settembre” e “febbraio”, presentate in altrettante sfilate dedicate sia alla donna sia all’uomo, e pronte ad arrivare in negozio a pochi giorni dalla sfilata. «I cambiamenti che stiamo mettendo in atto ci permetteranno di stabilire un legame più stretto tra i nostri show e il momento in cui le persone potranno fisicamente avere accesso alle collezioni», ha dichiarato il direttore creativo, e fino a poche settimane fa anche Ceo, Christopher Bailey. Una prova che per il gruppo da 2,5 miliardi di sterline di fatturato non è un vero e proprio salto nel buio: fin dal 2009, infatti, Burberry aveva sperimentato una formula di vendita immediata di pezzi facili, come sciarpe, cappelli, zaini, borse e make up, avvalendosi della collaborazione di Apple per trasmettere le sfilate in streaming o dei social media attraverso i buy button di Twitter o Facebook.

IL CORTOCIRCUITO FASHION BLOGGER

IL FUTURO È VIRTUALE

TUTTI DIETRO BURBERRYTrovato un capo rivolta, la schiera di adesioni alla filosofia see now, buy now si è moltiplicata a ridosso delle sfilate dello scorso febbraio e il maggior numero di adepti arriva da New York, proprio la fashion week che più aveva sentito il bisogno di studiare il fenomeno. Se alle ultime sfilate hanno fatto parlare di sé gli esperimenti di Diane Von Fürstenberg e Michael Kors, che hanno messo in vendita una capsule subito dopo lo show, alle prossime passerelle i nomi che incarneranno la rivoluzione saranno quelli di Tom Ford – che ha aperto la settimana della moda di New York con una sfilata il 7 settembre, e Tommy Hilfiger – desiderosi di abbracciare un sistema vicino al consumer più che al business. «In un mondo sempre più immediato, presentare una collezione quattro mesi prima della vendita non ha più senso. Spendiamo molto denaro per creare eventi che suscitano clamore molto prima che i capi siano in vendita. Sfilare on season, invece, spingerà anche i fatturati», aveva spiegato l’ex stilista di Gucci, che già ai tempi del suo come back nel 2010 aveva preferito una sfilata top secret, le cui immagini erano poi state diffuse su Vogue Paris, in concomitanza con l’arrivo in boutique, proprio per evitare la loro sovraesposizione nei mesi precedenti.Hilfiger abbraccerà la strategia consumer oriented a febbraio, ma già alla prossima New York Fashion Week ha mosso i primi passi con la collezione TommyXGigi, nata dalla collaborazione con una delle top model più social del momento, Gigi Hadid, e nei negozi poche settimane dopo l’evento che si terrà nella Grande Mela.Burberry, Ford, Hilfiger, Kors: tutti player globali, dai grandi numeri e soprattutto dalla fortissima presenza retail diretta. Una produzione per la propria rete di negozi, classificata secondo le categorie più performanti individuate dai propri store manager, è più semplice da gestire rispetto a una che dipende fortemente dai buyer (cioè dai titolari di boutique e department store dislocati in tutto il mondo), le cui politiche sono condizionate da variabili come il mix di brand, la clientela locale e i budget. Fino all’inizio degli anni Duemila, prima che le grandi griffe dessero inizio alla loro ossessiva espansione worldwide di monomarca, erano soprattutto loro a decretare il successo o meno di un marchio. Oggi che le turbolenze finanziarie e politiche hanno mostrato la fragilità di questo sistema, i cosiddetti “grandi magazzini” e i concept store di ricerca sono tornati a giocare un ruolo fondamentale, soprattutto per i marchi di piccole dimensioni. Ma senza una tempistica produttiva adeguata, in che modo i nuovi nomi possono emergere senza avere il tempo di conquistare i buyer e la stampa specializzata?Un timore incarnato soprattutto dai sistemi moda italiano e francese. Perché se New York e Londra, complice anche l’essere da sempre rappresentazione di una moda più commerciale, hanno aperto una breccia verso un nuovo modello (il Cfda, dopo lo studio del Boston Consulting, ha dato facoltà ai singoli marchi di scegliere liberamente a quale formula aderire), Milano e Parigi fanno asse a difesa della creatività tout court.

DIFENDERE LA CREATIVITÀ«La moda non può perdere la sua parte di sogno, dettato dalla creatività che ha bisogno delle sue tempistiche e dei suoi spazi. Se in futuro andremo verso questa direzione, i marchi non avranno più bisogno di un designer, ma solamente di stylist e merchandiser. Inoltre, questo sistema penalizza i marchi emergenti, che hanno bisogno di tempo per farsi conoscere. Vero è, però, che non possiamo impedire alle griffe di sperimentare e trovare il modo migliore per esprimersi», ha dichiarato Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda italiana. Parole a cui fanno eco quelle di Ralph Toledano, numero uno della Fédération Française de la Couture, du Prêt-à-porter, des Couturiers et des Créateurs de Mode: «Non credo che saremo comandati dalla tecnologia né che la tecnologia affosserà l’industria. La sposeremo e sapremo trarre da essa il meglio. Il design, la creatività e l’artigianato avranno sempre un ruolo da protagonisti». Ma anche sui due versanti dell’arco alpino non mancano spinte “reazionarie” al sistema. In Italia primi a sperimentare il ready to buy sono stati Moschino, che dall’arrivo dello stilista americano Jeremy Scott ha testato con successo la vendita immediata di capsule collection online e in boutique, e Versus, la linea più vicina alla Instagram generation di Versace. Ed è proprio la dea ex machina della Medusa, Donatella, a spiegare come approcciare questo nuovo modello di business: «Con Versus siamo stati pionieri del ready to buy, per essere più vicini ai giovani. Ma per avere la qualità, per esempio, su lavorazioni come stampe e ricami che sono importanti per il marchio Versace, occorre tempo. Possiamo, però, fare delle capsule, per esempio alcuni modelli di borse o una decina di look. Credo sia necessario reimpostare i tempi di consegna nei negozi: a volte sono impaziente io, figuriamoci le clienti».In Francia, invece, sono stati i cool brand Courrèges e Paco Rabanne i primi a sperimentare la formula con micro collezioni ready to buy, oltre a Vetements, il marchio di Demna Gvasalia (il più hot della scena parigina), che di recente ha scelto di cambiare il timing delle sfilate spiazzando tutti con uno show uomo, donna e couture a luglio. «Penso che la primavera-estate vada presentata a gennaio, consegnata a febbraio e venduta fino alla fine d’agosto, mentre l’autunno-inverno potrebbe restare in negozio da settembre fino alla fine di febbraio. I clienti non vogliono più aspettare, c’è il rischio che cadano nelle braccia del fast-fashion», ha avvertito il fratello Guram Gvasalia, mente finanziaria del marchio.Che sia dunque questa l’arma migliore contro Zara ed H&M: combatterli creando una sorta di fast fashion di lusso? Gli esperimenti targati Burberry, Tom Ford e Tommy Hilfiger saranno cruciali per comprendere se questo sistema sarà più o meno sostenibile per le griffe, non solo sul fronte creativo, ma anche su quello finanziario. Perché pentirsi e ritornare al passato potrebbe essere più difficile che togliere un like su Instagram o aspettare che scadano le 24 ore di un video di Snapchat. Ma saranno anche in questo caso i follower, virtuali o reali, a decidere.

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Una sfilata Autunno/Inverno 2016 di Burberry a Londra © Getty Images