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Il mea culpa della pubblicità italiana

A pochi giorni dall’International advertising festival di Cannes, i direttori creativi delle agenzie tricolore fanno outing

Tutto si può dire della pubblicità italiana, ma non che non sia consapevole dei propri vizi e delle proprie virtù. Certo, visti i risultati conseguiti alle ultime edizioni del Festival internazionale di Cannes, la maggiore kermesse dedicata all’advertising proveniente da tutto il mondo, verrebbe da dire che sono molti di più i difetti che i pregi. La creatività tricolore sembrerebbe incapace di farsi largo tra i grandi di sempre, Gran Bretagna e Stati Uniti, e i nuovi agguerritissimi arrivati, i mercati dell’India, del Medio e dell’Estremo Oriente. Le agenzie di questi ultimi pare abbiano imparato molto bene la lezione, se si considera il fatto che si presentano puntualmente alle grandi ribalte della pubblicità mondiale con progetti fatti apposta per colpire allo stomaco e conquistare il favore dei giurati. Ancora pochi giorni (la manifestazione prenderà il via il 21 giugno) e sapremo se anche la 56esima edizione del Festival sarà tutta o quasi all’insegna della pubblicità straniera.Di solito, si imputa la colpa dell’infiacchimento della creatività italica ai committenti. I clienti delle agenzie avrebbero un approccio troppo tradizionalistico alla comunicazione pubblicitaria, che fino a non più di qualche mese fa, in tempi di lenta ma costante crescita, veniva considerata alla stregua di un servizio di base, e non come un pilastro della strategia di marca. Per innalzare il quale sono necessarie professionalità d’eccellenza, investimenti continui e idee audaci. D’altra parte, proprio per questo motivo i direttori creativi hanno forse ecceduto negli ultimi anni in proposte un po’ troppo accondiscendenti nei confronti dei brand. D’accordo, il raggiungimento di un compromesso con gli aspetti più didascalici del messaggio è il sale del lavoro del creativo. Ma in Italia certi grossi compromessi, di quelli che vanno a scapito della qualità e della forza di una campagna, sono stati accettati soprattutto per evitare il muro contro muro con aziende che non si sarebbero fatte troppi scrupoli a salire in sella a un cavallo più docile.

L’ANNO DELLA SVOLTA, FORSETra i sostenitori di questa tesi c’è Luca Scotto Di Carlo, che oltre a essere executive creative director di Publicis Italia, è anche giurato nella categoria Film all’edizione 2009 dei Leoni di Cannes. «Quest’anno andremo al Festival non completamente a digiuno dei lavori in gara», spiega Scotto di Carlo. «Grazie al web, a Youtube e a siti specializzati, siamo riusciti a vedere tantissime delle creatività realizzate dalle agenzie straniere che partecipano al concorso. È evidente il cambio di atteggiamento delle aziende, a maggior ragione di quelle italiane, dopo lo spartiacque di quella che io chiamo “benedetta” crisi». Secondo il direttore creativo di Publicis, infatti, «ci saranno commercial figli della situazione precedente la recessione, e altri che saranno già immersi in questo contesto (la maggior parte dei film che partecipano a Cannes 2009 sono stati realizzati nella seconda metà del 2008, ndr). I marchi hanno reagito in due modi diversi alla contrazione dei consumi: chi, preso dal panico perché ha perso quote di mercato in settori in cui è sempre cresciuto, ha reagito cercando di mettersi ancora più in evidenza, esibendo la merce e strillando i prezzi. Chi, invece, ha cominciato ad ammettere l’esistenza di un problema, e ha chiesto aiuto alle agenzie per risolverlo. Come? Sfruttando la semplicità, e dando vita a comunicazioni che prendono spunto da una visione realistica delle persone, e non dalle immagini patinate dei prodotti, come è sempre successo fino a ora in Italia. Che non vuol dire fare le telepromozioni», continua Scotto Di Carlo, «ma partire da un concetto condiviso e condivisibile da tutti e costruire da lì il messaggio, arricchendolo con un’esecuzione fantasiosa, surreale. Sembrerebbe che adesso le aziende abbiano compreso che la qualità fa la differenza anche in comunicazione. E da ciò, secondo me, è scaturito un rapporto più franco e più diretto tra clienti e agenzie. A differenza di prima, quando il dialogo era in punta di forchetta e, se si provava a forzare, ci si trovava di fronte a un muro». Per Michele Mariani, direttore creativo esecutivo di Armando Testa, «la compressione e l’incertezza del mercato pubblicitario hanno sicuramente ridotto la propensione al rischio, ma il vero problema è che la creatività ha purtroppo perso la sua centralità nel mercato, che ormai si muove su logiche diverse. La creatività costa sudore, è un processo impegnativo, Cannes infatti non celebra solo le idee più originali ma soprattutto celebra il sudore e la passione che un buon progetto creativo richiede. Per questo bisognerebbe ricominciare a difendere la creatività in tutte le sue forme, soprattutto in momenti di crisi. Tutti sappiamo quanto è importante saper ascoltare il consumatore, quanto è importante rispettare i valori della marca, ma oggi più che mai è importante mantenere forte la capacità di raccontare storie, di intrattenere, di stupire. Soprattutto», continua Mariani, «è importante riportare la creatività al centro dei processi, come migliore antidoto alla difficile situazione di mercato. La coerenza con il marchio è sacrosanta ma non deve diventare una prigione della creatività, già frenata dall’eccessiva attenzione alle ricerche. Ecco perchè le produzioni di Paesi emergenti, più libere e disinvolte nel loro rapporto con il prodotto riescono, anche attraverso i social network, ad arrivare con successo al grande pubblico».Enrico Dorizza, direttore creativo di Leo Burnett Italia, ritiene che la grande crisi internazionale, come ogni altra cosa, abbia trascinato dietro di sé criticità ma anche aspetti positivi. «Se le agenzie sapranno sfruttare la situazione, senz’altro i risultati non si faranno attendere, anche se in questo momento tutti tendono a non rischiare». E Giorgio Brenna, che di Leo Burnett è amministratore delegato, rilancia: «Diciamo la verità: stavolta a Cannes sarà più dura del passato, molti settori dell’economia hanno attraversato un anno all’insegna del mantenimento. Dall’Italia arriverà qualche proposta carina, ma per quanto mi riguarda la parola d’ordine è scaramanzia».Secondo Brenna i problemi che l’advertising del nostro Paese ha, rispetto alla scena globale, non sono legati alla bravura dei creativi, e soprattutto non sono una questione contingente, ma sistemica. «In generale i grandi festival come Cannes hanno un’origine anglosassone, e anglosassone vuol dire, per definizione, internazionale. Il Belpaese, rispetto alla pubblicità, è la provincia del panorama mondiale. La creatività tricolore, salvo pochi casi, è tutta in lingua italiana, con testi, battute e testimonial che non hanno respiro internazionale, visto che si rivolgono solo al nostro mercato. Molte agenzie non fanno parte di grandi network, e non hanno in portfolio società multinazionali: è per questo che quando ci sono in ballo grosse campagne, spesso l’Italia è solo un Paese di adattamento. La creatività andrebbe invece pensata qui in modo che funzioni in ogni parte del mondo. Dico una banalità, purtroppo drammaticamente vera: molti dei direttori creativi italiani non parlano inglese, quindi siamo rovinati da questo punto di vista». Si tratta dunque di un intero sistema che arranca, e non di responsabilità di singoli individui. Anche se qualcuno da incolpare Brenna l’ha trovato. «Bisogna puntare il dito contro i vecchi pubblicitari, quelli che a 60 e rotti anni gestiscono ancora le agenzie, e che nel corso degli anni hanno voluto mantenere la protezione del loro orticello senza dare spazio e respiro all’estero, ai giovani, alle nuove tecnologie. Questo è il male endemico del nostro sistema di comunicazione!»

STRATEGIA E ACCONDISCENDENZAPerché in effetti le idee, e soprattutto le professionalità, nel nostro “orticello” non mancano. C’è in effetti chi pensa che i pochi successi a Cannes siano anche da attribuire a una questione di strategia. «La qualità della pubblicità media italiana è molto alta, rispetto a quella di tanti altri Paesi», dice Vicky Gitto, executive vice president e group executive creative director Y&R Brands. «Il grosso divario a Cannes si è accentuato quando mercati che avevano adeguate risorse economiche hanno investito puramente sui pezzi da premi, cosa che l’Italia ha fatto in maniera blanda negli ultimi anni. Ci sono Paesi come il Brasile o quelli mediorientali che hanno investito una enorme quantità di capitali nella visibilità che dà vincere dei premi a Cannes». Alcuni mercati godrebbero, in altre parole, di una superiorità di facciata. Ma il direttore creativo di Young & Rubicam continua a togliersi il cappello al cospetto della creatività inglese e americana. «Un caso a parte sono i mercati anglosassoni», dice Gitto, «mentre so per esperienza personale che alcune agenzie di altri Paesi puntano su progetti internazionali solo per mettersi in vetrina. E investono budget che le agenzie italiane non potrebbero assolutamente permettersi. Detto ciò, bisogna ammettere che la nostra creatività sta perdendo un po’ di vista quelli che sono i meccanismi premianti in manifestazioni come Cannes. E che nella Penisola manca la voglia di fare squadra, di creare una massa critica. Non tanto all’interno delle singole agenzie – anche se rimaniamo un popolo di one man band – quanto a livello di Paese, ci manca la voglia di posizionarci a livello mondiale come una nazione di punta sul piano pubblicitario. Poi ci ha sicuramente penalizzato un problema di cultura, visto che siamo molto meno diretti e aggressivi rispetto agli anglosassoni. In Italia è tutto più moderato, e la moderazione, quando si tratta di tirare fuori il massimo, non porta mai a grandi risultati. Le campagne che si vedono a Cannes sono molto decise, con posizionamenti a volte discutibili. E infine, da noi c’è la tendenza a fare contenti tutti, e a pagarne le conseguenze è la qualità del lavoro».Paul Wauters, pubblicitario belga che prima di assumere la direzione creativa di Tbwa/Italia ha girato a lungo lavorando per diversi gruppi internazionali, ha usato parole simili a quelle di Gitto per descrivere l’atteggiamento delle agenzie nostrane nei confronti dei clienti. «Ho notato che le agenzie italiane esagerano nel compiacere i propri clienti, a volte addirittura estrapolando l’headline di un annuncio direttamente dal briefing del committente. L’headline dovrebbe catturare le persone, trascinarle nel messaggio, intrigarle, ma questo non succede mai qui. Qual è il problema? In Italia sembra quasi che sia dato per scontato il fatto che alla gente non interessi la pubblicità». E soprattutto, nella maggior parte della campagne che Wauters ha visto nel Belpaese, mancherebbero tre delle caratteristiche che hanno invece contraddistinto i migliori lavori presentati ai D&Ad awards di Londra, a cui il creativo ha partecipato in qualità di giurato: «La capacità di sorprendere, la buona esecuzione e la rilevanza. In Italia troppo spesso si vedono creatività che non sono sorprendenti, e non di rado, quando invece lo sono, mancano di rilevanza. La ricerca dello stupore per lo stupore rischia di dare vita a lavori schizofrenici, che non hanno più niente a che fare con il prodotto, con i valori del brand, diventando del tutto irrilevanti. Non dico che voler compiacere il cliente sia sbagliato in assoluto, è l’esagerazione che compromette il rapporto: dopotutto ciò che di questo lavoro mi fa divertire ancora è proprio riuscire a conciliare gli obiettivi commerciali del committente con la mia idea creativa. La vera sfida sta nel riuscire a pensare a qualcosa di grande impatto quando si hanno grandi restrizioni».

SEI LEONI IN TRE ANNI, IL BOTTINO ITALIANONel 2008 l’Italia si è aggiudicata a Cannes due Leoni d’argento. Il primo lo ha vinto la campagna stampa firmata Leo Burnett per Koleston, brand del gruppo Procter & Gamble. Il secondo, ancora su stampa, è stato assegnato al progetto di Saatchi & Saatchi per Voltaren di Novartis, sviluppato di concerto con le filiali Saatchi di Svizzera e Germania. Nel 2007 era andata ancora peggio, visto che il Belpaese aveva intascato solo due Leoni di bronzo, uno conquistato grazie alla campagna outdoor creata per il Casinò di Venezia da AdmCom di Bologna, l’altro vinto da Arnold Italy per la campagna Voodookit. Se nel 2006 l’Italia aveva impressionato il pubblico mondiale strappando un Leone d’argento con il film “Underwater world”, realizzato da Leo Burnett per Ariston, il restante bottino della 53esima edizione del Festival di Cannes si riduceva ai due bronzi assegnati ai film Vapours per Halls e Savana Reactine, entrambi firmati Jwt. Per avere un raffronto con le “potenze” dell’advertising internazionale, basta dire che quell’anno la Gran Bretagna vinse 21 Leoni, aggiudicandosi anche il Grand prix.

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Alcune campagne pubblicitarie: The sculptor di Euro Rscg per Peugeot 206, Balls di Follon London per Sony Bravia e Believe per Halo 3 di Mccann