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Greenwashing: quando le aziende predicano bene, ma razzolano male

Un vecchio adagio consiglia di non fare promesse che non si possono mantenere. La ragione sta nel fatto che alla fine, in particolare per le aziende, perdono credibilità e clienti. Ecco perché – in una fase di grande successo della sostenibilità – l’imperativo categorico per evitare l’effetto boomerang deve essere sempre e unicamente la trasparenza

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Non è tutt’oro ciò che luccica, né ecologico ciò che è green. Se la sostenibilità oggi è percepita come un’urgenza da parte di organismi internazionali come l’Onu, che con l’Agenda 2030 stabilisce con chiarezza quali sono gli aspetti su cui i governi dovranno agire e in quanto tempo, sul mercato da tempo si fa leva su concetti di salvaguardia dell’ecosistema e rispetto dell’ambiente per aumentare l’appeal dei prodotti. Dai colori dei packaging, declinati nelle varie sfumature di verde, illustrati con immagini evocative di una natura incontaminata e scene idilliache, alle diciture che rassicurano sull’impatto ambientale del tal prodotto sia in fabbricazione che nello smaltimento, il consumatore sembrerebbe immerso in un’atmosfera vibrante di consapevolezza e responsabilità da parte di brand e aziende.

Purtroppo, non è sempre così, e il termine da imparare una volta per tutte è greenwashing, definito da una direttiva europea (la 2005/29/CE) «l’appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un’immagine verde […]». La tentazione d’altro canto è forte: la dichiarazione di sostenibilità ambientale sul mercato del largo consumo a gennaio 2020 valeva, in Italia, 6,5 miliardi di euro (dati Nomisma). Il 61% degli intervistati ha dichiarato di essere disposto a modificare le proprie abitudini di acquisto per premiare aziende che percepisce come sostenibili.

Dietro molte dichiarazioni di sostenibilità tuttavia capita che ci sia il nulla, e i motivi sono i più diversi. A volte si parla di vera e propria truffa, come la falsificazione da parte di Volkswagen dei dati sui livelli delle emissioni delle proprie autovetture. Altre volte si seduce l’acquirente con una comunicazione che metta in luce solo alcuni aspetti e glissi su altri, tipica di brand di grande appeal, che già godono di fiducia e apprezzamento. Nel 2013 Coca-Cola ha varato un’iniziativa di marketing incentrata sulla salubrità, mirata a spingere gli inglesi a fare attività fisica, per “combattere l’obesità”: si chiamava Coca-Cola Zero ParkLives, e coinvolgeva la versione sugar free della popolare bevanda, che per l’occasione sfoggiava una lattina verdissima anziché il tipico rosso. Un’operazione volutamente ambigua, come molti nutrizionisti fecero notare, che spostava la causa del disturbo dal prodotto (bevande eccessivamente zuccherate) allo stile di vita del consumatore. La domanda di prodotti rispettosi e sostenibili è comunque sempre più forte e consapevole, grazie alle campagne di sensibilizzazione svolte da organismi internazionali e associazioni di consumatori, che hanno dato risultati importanti. Ricordiamo nel 2016 l’appello contro l’uso estensivo dell’olio di palma, responsabile della deforestazione nelle aree tropicali, e la querelle che ne seguì tra Barilla, che smise di usarlo e si fregiò di una maggiore sostenibilità ambientale presso i consumatori, e Ferrero, che invece ne prese le difese per salvaguardare le caratteristiche del prodotto (la Nutella). A distanza di tempo, si può affermare che i consumatori non hanno rinunciato alla Nutella, che gode di ottima salute; ma che comunque Ferrero ha virato verso un olio di palma proveniente da coltivazioni sostenibili, tanto da meritare – a gennaio 2020 – 20 punti su un massimo di 22, nella classifica Palm Oil Buyers Scorecard del Wwf, la pagella cioè delle aziende del mondo che acquistano olio di palma.

Articolo pubblicato su Business People, gennaio-febbraio 2021

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