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Rassegnatevi alla diversity: i brand «inclusivi» fanno più soldi

I brand inclusivi hanno una migliore reputazione, riscuotono più fiducia e vengono consigliati più facilmente dai consumatori: ecco perché conviene investire sulla diversità

La diversità è un affare. L’80% della popolazione italiana preferisce brand inclusivi, attenti alla diversità in senso ampio, in termini di orientamento sessuale, religione, etnia, età, genere, disabilità e status socio-economico. La Diversity & Inclusion (D&I) è diventata decisiva per il successo delle aziende: la propensione a consigliare un brand aumenta quando le aziende sono inclusive e arriva fino a valori del 70,8% (Net Promoter Score, indicatore del passaparola).

La diversità è un affare

I brand che puntano sulla diversità sono più apprezzati dai consumatori, attirano più talenti, migliorano le performance economiche. Ma quali sono loro i progetti? Quali le best practice in Italia? Il tema sarà al centro della prima edizione del Diversity Brand Summit, ideato da Francesca Vecchioni, presidente di Diversity, associazione no profit impegnata nella promozione di politiche di diversity, e Sandro Castaldo, professore di Marketing presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi e Partner Fondatore di Focus Management, società di consulenza strategica esperta sulle tematiche del branding, del trust e della Csr. Il summit si svolgerà a febbraio a Milano presso la Fondazione Feltrinelli con il patrocinio del Comune di Milano, della Commissione europea, dell’Ambasciata del Canada in Italia, il sostegno del Comitato interministeriale per i diritti umani, la sponsorship di Assocom, FBCMilan e Good Move e la partecipazione di ospiti internazionali, opinion leader e imprenditori italiani che analizzeranno l’impatto della diversity sulle scelte dei consumatori e le strategie delle aziende più inclusive a livello nazionale e internazionale.

L’indice della diversità

Nel corso del Summit sarà presentato il primo Diversity Brand Index, l’indicatore che misura la capacità dei brand di essere percepiti come inclusivi e di lavorare fattivamente per sviluppare una cultura orientata alla D&I. L’indice, che integrerà i risultati della survey sulla popolazione italiana con le valutazioni del Comitato Scientifico, sarà espresso per ciascun marchio valutato, consentendo di individuare così i brand che concorreranno al Diversity Brand Award. «Oggi più che mai il valore che ognuno di noi associa ad un marchio, un brand, un’azienda, fa la differenza. La fa perché come consumatori scegliamo chi più ci rappresenta», dichiara Francesca Vecchioni, Presidente di Diversity. «Scegliamo chi ci assomiglia, chi riesce a parlarci davvero. Scegliamo di chi fidarci. Ascoltiamo i brand che parlano di noi e con noi, usando la nostra lingua. La nostra scelta è un potere, coglierla come responsabilità è un’opportunità».«L’impegno dei brand sulla D&I non passa inosservato», garantisce Sandro Castaldo, professore di Marketing all’Università Bocconi di Milano. «I consumatori lo percepiscono e orientano le proprie scelte di conseguenza. La D&I genera fiducia nei confronti dei marchi ed alimenta positivamente la brand equity. Un brand inclusivo costituisce un asset per le aziende, potendo contare su una base di ambassador più ampia che alimentano un passaparola positivo determinante per la crescita».

Gli italiani e la diversità

Secondo la survey, quasi il 52% delle consumatrici e consumatori italiani privilegia brand che investono sull’inclusione, valore che sale all’80% se si includono le persone che scelgono brand inclusivi per ragioni che le riguardano direttamente, quindi per interessi personali ed egoistici. Sono stati considerati sette tipi di diversità:- età,- disabilità, – etnia, – genere, – orientamento sessuale, – religione – status socio-economicoL’impegno sulla D&I ha un forte impatto sulla reputazione delle aziende ed è tra i fattori determinanti per generare fiducia nei brand e alimentare un passaparola positivo. Questa propensione a consigliare un brand (tecnicamente Net Promoter Score, un “misuratore” del passaparola) aumenta quando i brand sono più inclusivi e arriva fino al 70,8% con una percentuale di detrattori tredici volte inferiore rispetto a quelli dei promotori. Al contrario, per le aziende percepite come non inclusive dai consumatori, l’NPS scende fino al -43% con un numero di detrattori più che triplo rispetto ai promotori. Nonostante la frammentazione del mercato, è quindi chiaro il valore aggiunto di un brand inclusivo sia da un punto di vista etico che di mercato: aumentano il numero di promotori ed il passaparola positivo che fanno da volano al successo del brand.

Percorso a metà

Per quanto riguarda l’atteggiamento degli italiani nei confronti della diversità, la ricerca fa emergere un diffuso interesse sul tema della diversità che però non sfocia in un comportamento proattivo. Gli italiani pensano di conoscere le forme di diversità “sulla carta”, ma nella realtà si interfacciano relativamente poco con esse. La popolazione italiana mostra un livello medio-alto di familiarità con il concetto di diversità nelle sue diverse declinazioni con valori, in media, superiori al 5,5 (su una scala da 1 a 7) per tutte le forme di diversità: disabilità (5,71), età (5,70) e status socio-economico (5,69) sono le tre forme di diversità su cui gli italiani pensano di essere più “preparati” a livello teorico.In termini di contatto (interazione) con le singole forme di diversità, invece, i valori sono più bassi e compresi tra 3,80-5,26 (da 1 a 7): guidano la classifica genere, età e status socio-economico. Minoranze etniche e religiose sono le diversità con le quali si interagisce meno. Il coinvolgimento personale degli italiani nei confronti delle forme di diversità risulta basso. Il range si restringe ulteriormente: 3,95-4,69 (su una scala da 1 a 7). Ci si sente più coinvolti su età (4,69), disabilità (4,66), status socio-economico (4,61) e genere (4,46). Il coinvolgimento su religione/credo ed etnia è ancora più basso e inferiore al 4; l’orientamento sessuale ha invece un posizionamento intermedio (4,13).

Impegnati, indifferenti, idealisti

La ricerca ha poi individuato gruppi omogenei in termini di attitudini nei confronti delle singole forme di diversità, di caratteristiche individuali e di attenzione ad elementi quali l’ambiente e l’etica. La popolazione italiana può quindi essere suddivisa in queste categorie:

  • “Gli impegnati” (24,62% della popolazione): informati, coinvolti e vicini alla diversità soprattutto nella sua declinazione etnica e religiosa; equamente ripartiti tra uomini e donne con un’età media di 42,5 anni, un reddito dichiarato più alto rispetto alla media e il tasso di istruzione universitaria più elevato in assoluto;

  • “I coinvolti” (27,32%): molto orientati alla famiglia, consapevoli e coinvolti rispetto alle singole forme di diversità, ma poco abituati ad interagire con queste; in prevalenza uomini (51,5%)

  • “Gli idealisti” (15,36%): mediamente coinvolti in merito alla diversità per un senso dell’etica superiore alla media, ma poco vicini praticamente alle minoranze; in prevalenza uomini (57,3%) con età media di 39 anni, reddito più basso rispetto alla media del campione e tasso di istruzione universitaria più alto;

  • “I consapevoli” (13,01%): attenti a sé stessi più che agli altri, estremamente onesti, consapevoli delle forme di diversità, ma poco coinvolti, vicini alla diversità nelle manifestazioni dell’età e dell’orientamento sessuale; soprattutto donne (55,9%) con un’età media di 41 anni, un reddito dichiarato ed un tasso di istruzione universitaria più alti rispetto alla media del campione;

  • “Gli indifferenti” (8,32%): pensano a sé stessi e alla propria famiglia; non conoscono la diversità e non sembrano interessati ad approfondirla; in prevalenza donne (50,7%) con età media di 42 anni, un reddito dichiarato più basso rispetto alla media del campione;

  • “Gli arrabbiati” (11,37%): spiccatamente individualisti, non mostrano interesse e coinvolgimento sulla diversità, ma si confrontano frequentemente, per ragioni famigliari, professionali, sociali, con le “difficoltà” legate a disabilità, fasce di età estreme e status socio-economici meno elevati; in prevalenza donne (51,6%) con un’età media di 47 anni.

In fondo, gli italiani pensano di non avere una interazione così forte con la diversità, ma vogliono che se ne parli. Solo un italiano su cinque sembra essere insensibile rispetto al tema della D&I, mentre è di 1 su 4 la percentuale di chi è realmente impegnato sul tema della diversità: il 27% circa è rappresentato da persone molto coinvolte dall’argomento diversity.