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Gig economy: verso i 25 miliardi di euro in Italia

Alla faccia dei lavoretti! I servizi on call, basati su piattaforme digitali e attivabili via app, vedono impennare i fatturati. Ma si rischia grosso, perché in assenza di regole chiare, i gigger sono destinati alla marginalità sociale

Siete in viaggio per lavoro. L’host del monolocale che avete affittato via Internet vi ha appena consegnato le chiavi del vostro appartamento. Lo avete raggiunto guidati da un autista privato, contattato sfiorando lo schermo dello smartphone. È ora di cena e ordinate a domicilio, tramite un’app, degli ottimi piatti gourmet sfornati da uno dei più rinomati ristoranti stellati locali. Ecco uno spaccato comune dell’economia on demand, in crescita inarrestabile intorno a noi. Un fenomeno che coinvolge quotidianamente uno stuolo di corrieri, driver, chef, addetti alle pulizie e alle riparazioni, esperti di fitness, babysitter, dogsitter e tante altre figure di liberi professionisti, pronti a offrire una prestazione occasionale a portata di click.

Un paio d’anni fa ha suscitato interesse e clamore una copertina dell’Economist in cui era raffigurato un rubinetto da cui usciva un getto di lavoratori autonomi. Un esercito puntiforme di manodopera anonima, talvolta invisibile, non di rado iper-qualificata (tra cui eccellenti programmatori software e insegnanti plurititolati), sono la base della cosiddetta Gig Economy (“gig” era l’ingaggio a serata dei jazzisti nel primo ‘900; oggi, per estensione, indica qualsiasi “lavoretto”). A girare le manopole del dispositivo e a far scorrere flussi di transazioni economiche provvedono numerose imprese digitali, portali all’avanguardia in grado di intercettare la richiesta di servizi di ogni tipo e di soddisfarla mettendo a disposizione un network capillare di freelance, attivabile e coordinabile via Internet. Qualche esempio? Sul sito Fiverr.com si incontrano domanda e offerta relative a servizi di traduzione, redazione di testi, opere di video e audio editing. Care.com mette in contatto operatori specializzati con chi necessita di assistenza per bambini, anziani o, ancora, animali. Etsy.com è un mercato virtuale dedicato all’artigianato e al vintage fatto a mano. Servono, invece, aiuti domestici? Date un’occhiata a Tabbid.com. Il minimo comun denominatore tra questi e analoghi soggetti è un modello organizzativo che fa capo a una piattaforma centrale, prevalentemente gestita da uno staff fisso, dalle dimensioni ridotte, di coordinatori pronti a smistare e a indirizzare le varie richieste a innumerevoli contractor esterni “ad alta rotazione”. In base a una ricerca dell’Università di Pavia, commissionata da Phd Italia, il volume di un simile comparto, così come si presenta oggi, sarebbe destinato a salire da 3,5 miliardi di euro del 2015, generati da 11,6 milioni di utenti, a 8,8 miliardi nel 2020, fino a un valore compreso tra i 14 e i 25 miliardi nel 2025. Un turnover che potrebbe oscillare tra lo 0,7% e l’1,3% del prodotto interno lordo. Secondo altre stime, riportate dal blog di Corriere.it La Nuvola del Lavoro, si parlerebbe di una cifra più che raddoppiata: 53 miliardi di dollari (quasi 50 miliardi di euro) entro il prossimo decennio, il 2,5% del pil. In ogni caso, una fetta ghiotta e invitante della torta complessiva.

Tra i business “on call” e “on the go” che stanno conoscendo una notevole espansione nel nostro Paese, in pole position c’è quello della consegna del cibo a domicilio, con una schiera di migliaia di fattorini pronti a fronteggiare il traffico cittadino in sella a una bici. Si stima che, a fine anno, il giro d’affari italiano dovrebbe sfiorare i 700 milioni di euro; solo nel 2015 erano 400. A incrementare un simile volume ci pensano piattaforme come Deliveroo, Just-Eat e Foodora. Quest’ultima è una realtà attorno cui ruotano oltre 1.300 ristoranti e 900 rider a Milano, Torino, Roma e Firenze, con un tasso di crescita del 25% al mese. Commentano a Business People Gianluca Cocco e Matteo Lentini, co-Managing Director dell’impresa tedesca in Italia: «Il marchio ha costruito una piattaforma in grado di decodificare e incrociare i desideri dei consumatori, sempre più esigenti e con sempre meno tempo per cucinare, con l’offerta dei ristoranti, che hanno spesso cucine in grado di soddisfare più ordini rispetto a quelli generati dai coperti in sala, e la disponibilità dei rider, perlopiù alla ricerca di un’occupazione caratterizzata da modalità, tempi e disponibilità flessibili per adattarsi a esigenze di studio e/o di un altro lavoro». Abbiamo cercato di fare qualche conto con i responsabili per capire chi guadagna e quanto sui pasti a domicilio. «Per quanto riguarda il consumatore finale, il servizio ha un costo di 2,90 euro (2,37 + Iva) per consegna qualunque sia il valore dell’ordine, fermo restando un minimo di 10 euro. I rider vengono retribuiti con 4 euro lordi (3,60 euro netti) a consegna. Considerando un paio di home delivery all’ora, a fronte di un impegno da 18 ore settimanali», un corriere potrebbe ottenere «fino a 600 euro al mese»: praticamente l’equivalente della rata mensile di un mutuo o dell’affitto di una stanza singola. Quanto agli esercizi pubblici, che possono veder lievitare le ordinazioni («in certi casi sono raddoppiate o triplicate») e rafforzare la propria brand awareness, «questi partner sono legati a Foodora secondo accordi ad hoc che variano dall’uno all’altro; si tratta di collaborazioni cucite su misura per cui è difficile dare una percentuale che rispecchi la realtà delle commissioni per ordine richieste ai ristoranti: in media possiamo parlare del 30% circa».

Il settore food, declinato secondo differenti direzioni, appare essere uno degli assi portanti del mondo dei gigger. Si pensi anche al network di social eating Gnammo, lanciato nel 2012 e oggi con 220 mila utenti registrati, oltre 5 mila chef “per una notte” e 15 mila eventi conviviali pubblicati. «Al netto del 12% di transaction fee che trattiene il portale (che sale al 20% nel caso delle special dinner in location come terrazze con vista panoramica, ville e castelli, ndr) il resto va al cuoco», spiega Cristiano Rigon, uno dei fondatori. «In media, per una serata con sette partecipanti, la cifra si aggira intorno ai 25-26 euro a testa. Dei 200 euro raccolti complessivamente con un sistema di prepagamento online, a chi si mette ai fornelli rimangono 70-100 euro. Il miglior grembiule 2016 ha fatto transare sulla piattaforma circa 10-12 mila euro, per un guadagno annuo di 4-5 mila euro». L’Alveare che dice sì!, invece, fa da trait d’union tra produttori locali di vari generi alimentari a km zero e consumatori amanti dell’alimentazione biologica e sostenibile. «Il contadino vende direttamente al cliente finale e paga due commissioni, ognuna del 10%, sia alla piattaforma che al responsabile della ruche», illustra il Founder&Ceo Eugenio Sapora. «Il volume d’affari delle realtà maggiormente performanti si aggira intorno ai 1.000-1.500 euro: con una distribuzione a settimana, il gestore può intascare fi no a 600 euro al mese».

In parallelo al connubio cibo e hi tech, altri assi portanti lungo i quali si muove il gig business sono i trasporti e gli affitti temporanei, due ambiti oggetto di un recente tentativo di regolamentazione in un oceanico vuoto normativo tutto da colmare. Le caotiche nebulose dell’On Demand Economy hanno scatenato un braccio di ferro tra entusiasti e catastrofi sti. I primi vedono in essa un’opportunità per l’erosione della disoccupazione giovanile e per la ricollocazione lavorativa di molti “over 50”, oltre alla possibilità di estendere, in futuro, un modello di start up oggi ancora agli albori a realtà più grandi e strutturate in cerca di una trasformazione 4.0. I secondi si concentrano su spinose questioni quali il sommerso attualmente generato da varie imprese alle condizioni di scarsa sicurezza in cui operano numerosi lavoratori, fino alla necessità di imporre un obbligo di licenza per determinate prestazioni. Quel che è certo è che il liberismo digitale sta affrontando una partita in cui urge l’intervento di arbitri rigorosi che dettino tempi, ritmi e modalità più equilibrate a vantaggio di tutti i player. La lezione delle bolle speculative, esplose nell’era dot.com, non è un ricordo così lontano.

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