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Economia circolare: quando il circolo è virtuoso

Oggi l’innovazione tecnologica rende possibile un modello di sviluppo capace di accantonarne definitivamente uno non più sostenibile, basato solo su termini come produzione, utilizzo e scarto. Principi come remanufacturing, predictive mainteinance e waste as a resource stanno ridisegnando, in meglio, il nostro futuro

Gli incendi catastrofici in Australia e California, gli enormi crateri apparsi in Siberia a causa dell’aumento delle temperature e della degradazione del permafrost, così come il numero record di uragani negli Usa sono cartoline dal 2020 che ci ricordano che le pandemie non sono l’unica cosa che dobbiamo temere. A un’umanità diretta verso un Armageddon climatico con la stessa ostinazione con cui il Titanic andò (in)contro al suo destino, è offerta un’ultima occasione di cambiare rotta, cioè di modificare il paradigma di sviluppo economico. Non è necessario inventarne uno nuovo da zero: un’alternativa c’è già. È la cosiddetta economia circolare la quale, benché risalga agli anni 70, sta vivendo una nuova giovinezza, perché – con le tecnologie attualmente disponibili e con quelle che lo saranno a breve – questa rivoluzione è davvero possibile. E, infatti, sta già avvenendo.

Economia circolare: oltre il semplice riciclo

Il modello attuale è definito lineare, perché basato sull’estrazione di materie prime, sulla produzione di oggetti e poi sullo scarto dei medesimi. Oggi non è più sostenibile. La globalizzazione, in particolare, ha accelerato l’erosione dell’ambiente e il consumo di risorse, triplicato in soli 50 anni. L’economia circolare propone, invece, un modello economico in cui una parte consistente delle materie utilizzate non viene destinata al macero, ma è reimmessa nel ciclo produttivo, abbattendo il consumo di nuovo capitale naturale. Non va confusa con il semplice riciclo, perché la filosofia sottostante è completamente diversa, ha un approccio più sistemico; non si limita a predicare di non gettare in discarica qualcosa che può essere salvato, ma postula che il prodotto vada pensato ab origine. Se così è ancora troppo astratto, si pensi a un oggetto semplice come un tostapane. In genere, quando si rompe, lo si butta e se ne compra un altro. Questo in base a un approccio lineare. Quello circolare, invece, vorrebbe che il tostapane venisse riparato attraverso la sostituzione dell’unico pezzo non funzionante. Ma perché ciò accada, bisogna che questa possibilità sia prevista in fase di design.

Da vendita merce a servizi: nuove opportunità di business

Sembra banale, ma è una rivoluzione copernicana. L’esempio fatto dal New York Times in un articolo pubblicato lo scorso maggio è estremamente chiaro: a un’impresa attiva nella lavorazione del legno dell’Illinois si erano rotte due esboscatrici. I proprietari avrebbero potuto comprarne di nuove ma i nuovi modelli erano tutti più grandi, più potenti e più costosi. Così chiesero alla Deere & Company, che aveva prodotto le macchine originali, di rimetterle a nuovo. Il produttore accettò la sfida e scoprì un nuovo business. L’obiezione più ovvia è che, in questo modo, si rischi di cannibalizzare il proprio business. Chi la fa, non coglie che un’azienda che abbracciasse i dettami dell’economia circolare cambierebbe anche tipo di business, passando dalla merce ai servizi, cioè troverebbe un mercato nuovo, con un potenziale enorme, soprattutto ora che il consumatore dimostra una grande attenzione al tema ambientale. Secondo un’analisi di Persistence Market Research, il solo mercato del remanufacturing della componentistica automotive ha un tasso di crescita annua del 7,7% e nel 2026 potrebbe toccare i 91 miliardi di dollari.

Il remanufacturing è il processo che fu teorizzato nei primi ‘70 da Robert Lund, un ingegnere della Boston University, che comprese l’importanza di “resuscitare” oggetti defunti. Lund era convinto che questo processo industriale, perché di questo si tratta, garantisse prodotti superiori per qualità e contenuto di lavoro rispetto alla riparazione o al ricondizionamento. Secondo alcuni studi, il remanufactuing consente di utilizzare solo un 20/25% dell’energia che sarebbe impiegata in un processo di produzione da zero, e di tagliare un 40% dei costi finali.

Certo, per quanto grande, il remanufacturing è solo uno degli affluenti del fiume dell’economia circolare. Nell’edilizia, per esempio, si vanno diffondendo pratiche come il passive building design. Ne è un esempio l’Eastgate Center di Harare, Zimbabwe, costruito in base ai principi della biomimetica, riproducendo la struttura dei termitai e sfruttando le correnti d’aria e il sole per scaldare e ventilare l’edificio. Il flexible design, invece, consente di cambiare la destinazione d’uso di una certa infrastruttura al mutare delle esigenze di chi ci vive o del mercato, evitando così di doverlo tirare giù e ricostruirlo, cosa che implicherebbe uno spreco enorme di materiale. L’uso di materiali rigenerativi, come per esempio il legno o il bambù nelle costruzioni, è un’altra strada da percorrere, che tra l’altro consente di ottenere ambienti più efficienti da un punto di vista energetico e quindi consumi inferiori. Negli ultimi anni, si sono moltiplicate le società specializzate nella progettazione, realizzazione e consulenza nel campo della bioedilizia. Anche questo è un mercato in espansione.

Circular economy: le iniziative delle singole aziende

Più in generale, tutte le innovazioni tecnologiche che vengono comunemente riunite sotto l’ombrello del 4.0 si stanno rivelando utili per rivoluzionare molti settori. Le stampanti digitali consentono di fabbricare, a bassissimo costo, singoli componenti da sostituire. L’uso combinato di IoT, Big Data, Artificial Intelligence, Machine Learning, con droni, AR/VR e infrarossi permette di sapere quali saranno i punti deboli di una struttura prima ancora di realizzarla, e rendono possibile il cosiddetto predictive manteinance, cioè il monitoraggio in tempo reale delle componenti di un impianto in modo da intervenire subito prima che si verifichi un guasto. Una caratteristica dell’economia circolare è, almeno al momento, la sua anarchia, nel senso che viene abbracciata da singoli attori in un processo che è tanto bottom up quanto top down. Rientrano pienamente nell’alveo di questo modello progetti come il sito danese Circos, la cui app consente di scambiare o noleggiare vestitini per neonati e bambini; come Toast Ale, azienda che produce birra usando pane invenduto dei fornai, scarti di produzione e pane secco; o Gem.co, società cinese specializzatasi nell’estrazione di minerali rari e metalli come cobalto, nickel e tungsteno da pile esauste, rottami di auto e spazzatura elettronica. In Brasile, l’app Cataki ha messo in rete circa 400 mila catadores de lixo, i disperati che rubano nell’immondizia alla ricerca di alluminio, plastica e vetro da portare nei centri di raccolta, facendoseli pagare, che così possono essere contattati da chi ha rifiuti da smaltire. Tutti esempi che incarnano il principio del waste as a resource, altro cardine dell’economia circolare.

Circular economy: le iniziative di Paesi e multinazionali

Accanto a queste iniziative dal basso, ci sono poi progetti di più ampio respiro, guidati dall’alto. Paesi che sono tra i più minacciati dal cambiamento climatico si sono dati una strategia, come il Costa Rica, che mira a diventare carbon neutral entro il 2050, o Colombia, Indonesia e Rwanda. L’Unione europea nel 2020 ha varato il cosiddetto Green New Deal, dandosi obiettivi ambiziosi come quello di arrivare, entro il 2030, a una riduzione delle emissioni di gas serra del 40% rispetto ai livelli del 1990, di avere nel proprio cocktail energetico almeno un 32% di rinnovabili e un miglioramento del 32,5% della propria efficienza energetica. E ancora, di avere una raccolta della plastica al 90%, con bottiglie composte per almeno un 25% di materiale riciclato. È una questione di ambiente, ma anche di geopolitica. Secondo un recente report della European Investment Bank, l’Ue dipende dall’estero per il 90% del consumo di minerali e metalli e ha difficoltà di approvvigionamento su almeno 27 materie prime.

Ma la sfida è stata abbracciata anche da player di diverso calibro, da corporation come Ikea, che ha eliminato i cataloghi cartacei e ha varato una politica di ripresa in consegna dei mobili usati, passando per catene di supermercati come Tesco, che nel 2019 ha lanciato il suo Little Helps Plan, promettendo di eliminare la plastica dagli imballaggi entro il 2025, stesso obiettivo di Esselunga. Barilla, dal canto suo, nel 2018 ha varato il progetto Dna (Distribution network assessment) ridisegnando il suo sistema distributivo e ottenendo il taglio del 16% delle sue emissioni inquinanti. Non si contano le aziende che stanno riconfigurando la propria supply chain per ottimizzare le risorse e ridurre la propria orma ambientale. Più in generale, sono molti i settori che si stanno dando da fare, dal tessile, dove si registra la proposta di potenziare la raccolta di abiti usati lanciata da Euratex all’elettronica, passando per le grandi società petrolifere, come Bp ed Eni, che di recente ha firmato un accordo con Enel per la fornitura di idrogeno alle sue raffinerie.

L’occasione è quasi unica. Ridisegnando il modello economico si possono sanare guasti non solo ambientali. Il paradigma lineare degli ultimi decenni si basa sullo sfruttamento: il ciclo prevede l’uso intensivo delle terre dei Paesi più poveri e processi produttivi, altamente inquinanti, spostati in quelli di recente industrializzazione, con conseguenze economiche e sociali che si sono viste e sentite in tutto il mondo. Il vento sta cambiando. La Cina, fino a pochi anni fa destinazione di circa due terzi dei rifiuti di plastica prodotti nel mondo, ha chiuso i porti a simili carichi. Il gigante asiatico negli ultimi 10 anni ha investito 758 miliardi di dollari sul potenziamento delle rinnovabili. Ma purtroppo non ci sono solo buone notizie. Il Circularity Gap Report 2020, lo studio annuale sullo stato dell’arte lanciato nel 2018 al Forum di Davos, rivela che, se nel 2017 il 9,1% delle risorse consumate era materiale recuperato, nel 2019 questa percentuale era scesa all’8,6% il che vuol dire che la velocità di consumo è superiore a quella di riciclo. La tecnologia c’è, la svolta è possibile. Nel 2019, è stato sfondato il tetto dei 100 miliardi di tonnellate di materie prime consumate. Finora, l’iniziativa l’hanno presa i privati, con in testa la Ellen MacArthur Foundation, cui aderiscono colossi come Blackrock, Danone, H&M Group, Google, Renault e Intesa Sanpaolo. Bene, ma i governi devono essere parte della riscrittura dei codici economici e accelerare la transizione, con investimenti ingenti, in tempi certi e leggi lungimiranti e chiare. La rotta deve essere invertita perché il porto è in vista ma ci stiamo allontanando, navigando – ottusi e inconsapevoli – verso il mare aperto e verso il nostro iceberg.

Articolo pubblicato su Business People, gennaio-febbraio 2021

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