Sprechi d’Italia

Quanto potremmo guadagnare (e non lo facciamo) dando anche solo un po’ di ossigeno a gioielli dimenticati. Come insegnano Francia e Spagna che invece...

Della Reggia di Caserta si parla spesso come della Versailles del Sud. E a ragione: il capolavoro di Vanvitelli, patrimonio dell’Unesco dal 1997, è più raccolto, ma per certi versi forse ancora più spettacolare del mastodontico complesso parigino. Solo che Versailles attrae in media ogni anno tre milioni di visitatori per il palazzo e sette milioni di visitatori per i giardini, mentre lo scorso dicembre Alfredo Aurilio, commissario straordinario a capo dell’Ept di Caserta (già, perché in Campania anche per l’Ente di promozione turistica serve un commissario straordinario) gongolava per gli oltre 600 mila ingressi nella Reggia registrati nel 2010. Certo, i visitatori sono aumentati quasi del 20% rispetto ai 562 mila del 2009, ma rimane comunque una quantità risibile se paragonata ai biglietti staccati a Versailles. Nel 2011, con ogni probabilità gli ospiti della Reggia, che attualmente è il sesto sito più visitato d’Italia, aumenteranno ancora: è stata inaugurata proprio il mese scorso “Maestà regia arte a palazzo, dai Farnese ai Borbone. Il riallestimento delle collezioni”, un’iniziativa che, come ha raccontato il Corriere della Sera, ha riportato alla luce, e senza l’ausilio di sponsor, alcuni dei più preziosi oggetti custoditi all’interno della Reggia, tra cui ci sono circa 140 dipinti, ora esposti lungo percorsi tematici allestiti nelle sale del palazzo. Va bene, d’accordo, c’è di che gioire. Ma l’assillo rimane. Perché con un sito tanto straordinario, per di più strategicamente posto a cavallo tra due città come Roma e Napoli e comodamente servito da una ferrovia su cui corrono treni ad alta velocità, i visitatori risultano sempre così pochi? Purtroppo non è un problema che riguarda soltanto la Reggia – qui presa come emblema di una macchina turistica dalle enormi potenzialità, ma inceppata da anni – bensì gran parte dei beni culturali italiani, che sembrano del tutto sganciati da un sistema spesso comunque incapace di attrarre e accogliere milioni di visitatori. Cosa che invece riesce benissimo ai cugini d’Oltralpe, per l’appunto. «Il sistema francese funziona meglio perché ha adottato da un quarto di secolo una formula efficace, quella indicata dal filosofo Jacques Derrida: “Un paese vincente è quello che coniuga la cultura dell’ospitalità con una buona politica”», spiega il giornalista Salvatore Giannella, già direttore di Genius, L’Europeo e Airone e attualmente direttore editoriale del mensile di storia Bbc History Italia. Giannella, che è anche coordinatore del Premio Rotondi ai salvatori dell’arte (scopri di più) si è occupato, tra le altre cose, del divario tra l’offerta turistica italiana e quella francese nel suo libro Voglia di cambiare (Chiarelettere, 2008). «Applicando il concetto di ospitalità nel senso più ampio la Francia è ormai stabilmente, dal 1990, la prima potenza turistica mondiale, titolo che nel 1970 spettava all’Italia: oggi siamo al quinto posto, surclassati dai francesi, protagonisti di una lunga marcia basata sulle parole d’ordine di libertà d’impresa, rispetto delle leggi e arte dell’ospitalità. Un mosaico valorizzato dalla Maison de la France, l’organismo incaricato di promuovere globalmente l’immagine della Francia all’estero, diventato un modello». Secondo Giannella la lezione principale della Maison, che gode di un bilancio nettamente più cospicuo dei nostri organismi promozionali, è che l’immagine di un Paese all’estero non può essere gestito dalle regioni con politiche differenziate, ma va ripresa in mano da una cabina di regia unica, che ne rafforzi il marchio. «Adesso, sia pur in ritardo, le cose in Italia si stanno muovendo in questa direzione. E proprio qualche giorno fa il nuovo ministro dei Beni culturali, Giancarlo Galan, presentando il suo programma al Senato, ha sostenuto che per la cultura italiana e il suo patrimonio unico al mondo serve un piano Roosevelt: investimenti e cooperazione tra cultura e politica, cioè la formula francese. Gli facciamo, ci facciamo gli auguri». Purtroppo al ministero dei Beni culturali serve molto più che un augurio: Alessandra Mottola Molfino, presidente di Italia Nostra, l’associazione che da più di 50 anni si occupa della salvaguardia e della tutela del territorio tricolore rileva che «i finanziamenti ai Beni culturali sono calati del 30% negli ultimi cinque anni, e questo incide soprattutto sulle attività di manutenzione e restauro». Ma la realtà descritta da Gianantonio Stella e Sergio Rizzo nel libro Vandali (Rizzoli, 2011) è ancora più amara. In dieci anni, dal 2001 al 2011, i finanziamenti pubblici ai Beni culturali sono calati del 40%, da 2.386 a 1.429 milioni di euro. E nel 2013 i soldi saranno ancora meno, 1.417 milioni. E poi ci si chiede il perché di disastri come quello della Scuola dei Gladiatori di Pompei. O di danni più lievi, che però rappresentano con una grottesca metafora lo stato in cui sta precipitando il nostro patrimonio, come i recenti crolli del parapetto del belvedere sui Faraglioni di Capri e di una colonnina del ponte di Rialto a Venezia.Il vero spreco, però, è il potenziale inespresso di strutture ed edifici letteralmente lasciati a marcire. Italia Nostra ha pubblicato sul proprio sito la famigerata “Lista rossa”, un elenco di beni artistici che avrebbero urgente bisogno di restauri, e che invece sono assaliti dall’incuria, dalla vegetazione, a volte anche dall’immondizia. Qualche esempio? Il borgo di Leri Cavour, a Trino (Vc), la reggia-fattoria borbonica di Carditello e la chiesa di Sant’Angelo in Formis, a Capua, ancora in provincia di Caserta, la necropoli punica di Sulky a Sant’Antioco, in Sardegna, il santuario rupestre della dea Cibele a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, i templi e il grande sito archeologico di Selinunte, sempre in Sicilia, per arrivare in Toscana, dove a soffrire sono le Cascine di Tavola di Lorenzo il Magnifico a Prato, le mura di San Gimignano e le Gualchiere di Remole a Firenze. Ma ci sono anche interi distretti dimenticati, ricchi di aree di interesse storico e artistico o solcati da infrastrutture abbandonate che potrebbero diventare straordinari poli di attrazione turistica. Basti pensare alle Torri di avvistamento del Salento (qui a lato), che dal XVI secolo sorvegliano lo Ionio e l’Adriatico puntellando, a pochi chilometri l’una dall’altra, le coste pugliesi. Un tempo servivano a individuare le vele dei pirati moreschi che assaltavano le campagne intorno a Lecce: oggi sono ammassi di mattoni divorati dalla salsedine. Molti siti stanno letteralmente scomparendo, perché alcune torri furono costruite, per risparmiare sui materiali, con calce ottenuta utilizzando acqua di mare invece che acqua dolce, mentre a sgretolare quelle più resistenti ci pensa la crescita incontrollata della vegetazione. Il mezzo ideale per visitare le torri è la bicicletta. Peccato che non esistano piste ciclabili, e per trovare punti di ristoro occorre percorrere chilometri di spiaggia o di strada provinciale.Ci sono poi, sparse per tutta la Penisola, le vecchie ferrovie dismesse. Non si tratta solo di 5.700 km di strada ferrata inutilizzata, ma molto spesso di tratte che attraversano paesaggi incantevoli collegando vecchi borghi di enorme interesse storico e artistico. In Svizzera hanno saputo valorizzarle con il treno del Bernina. In Spagna, dove già da diversi anni la rivoluzione dell’alta velocità ha permesso ai pendolari di abbandonare le linee antidiluviane, sono nate le Vias verdes, percorsi ad alta lentezza dove in treno, in bicicletta o a piedi i turisti possono godersi panorami che altrimenti rischierebbero di scomparire. «Questo straordinario progetto è nato dalla passione di Joaquìn Jiménez e Carmen Aycart Luengo, e dalla connessione tra governo, regioni e province, con la Fondazione dove lavoravano i due coniugi progettisti a fare da ente coordinatore», spiega Giannella, che saprebbe anche a chi far affidare il progetto in Italia. «Fossi il ministro dei Trasporti chiamerei a realizzare le “Strade verdi” uno specialista come il milanese Albano Marcarini, presidente della Confederazione per la mobilità dolce (www.ferroviedimenticate.it, ndr) e tra i primi in Italia a individuare le grandi potenzialità di questi “rami secchi”. A parole oggi tutti si dicono a favore del merito: Marcarini ha avuto questo grande merito e il Paese dovrebbe riconoscerglielo, qualcuno lo chiami».Già, ma chi, e con quali fondi. Il problema in Italia è sempre quello dei soldi. Chi deve metterceli, e soprattutto, chi deve gestirli? Deve forse occuparsene il privato? Alessandra Mottola Molfino pensa di no e sposa la tesi di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani che, intervistato dall’Espresso ha dichiarato che «settori dello Stato come beni culturali, scuola e sanità non si possono misurare in termini di parità di bilancio, il giorno in cui il dicastero della sanità fosse in pareggio vorrebbe dire che con i malati poveri si fanno scatolette per gatti». Differente il parere di Salvatore Giannella: «Per me la parte più importante andrebbe recitata dai privati, come succede negli Stati Uniti: ma questo impegno dovrebbe prevedere agevolazioni fiscali e altri giusti vantaggi e ricadute d’immagine per gli investitori, e qui purtroppo siamo deboli». «Attenzione però», dice Mottola Molfino, «è vero che fare manutenzione e restauro costa, ma l’investimento in cultura rende dieci volte tanto. Io considero molto vaga la speranza di ottenere finanziamenti privati. Il privato giustamente ha come obiettivo il profitto, mentre questi sono beni comuni che dobbiamo difendere tutti insieme». Utopia? Non proprio. Il 4 giugno, durante la quindicesima edizione del Premio Rotondi (www.arcaarte.it) ai salvatori dell’arte, verrà premiato a Sassocorvaro il comune di Montpellier. «Quella città di 250 mila abitanti, tra la Costa Azzurra e la Spagna, ha fatto del suo patrimonio culturale il volano dell’economia di tutto il territorio», spiega Giannella. «Con il suo centro storico ben tenuto, ha soltanto un sito archeologico e un museo ma, a differenza di molte città italiane, lo fanno fruttare come se fosse il Colosseo. Infatti a Montpellier lo scorso anno sono arrivati ben due milioni di turisti che hanno scelto di trascorrere almeno un giorno e una notte in città. Lì una persona su dieci lavora nel settore del turismo, e la crisi economica non ha portato a ridurre gli investimenti, che sono stati anzi incrementati. Il museo, che otto anni fa era chiuso, ha quadruplicato gli spazi, ha aggiunto un auditorium, una libreria, laboratori artistici e una sala per accogliere eventi internazionali. Da quando è stato riaperto, nel 2007, la media dei visitatori viaggia sui 750 mila l’anno, e la crescita è regolare», continua Giannella. «Lo Stato, la Regione e il Comune hanno investito in tutto 650 milioni di euro per far rinascere l’istituto, i cui dirigenti hanno a disposizione, oggi, un budget annuale di 5 milioni di euro. Non ci sono più opere dimenticate nei depositi, si sono fatte 20 assunzioni, le guide turistiche da cinque sono diventate 15. Per ogni euro investito hanno avuto un ritorno di 19 euro nell’economia regionale, con il coinvolgimento di imprese locali, artigiani in testa. E nel sito archeologico è stato dato il via a uno scavo scuola internazionale. Insomma, Montpellier insegna che grazie alla cultura si può anche mangiare, e bene».

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