Le moderne tecniche e filosofie di gestione aziendale guidano la formazione di un dirigente verso una sempre maggiore capacità transpersonale. Sia sotto il profilo produttivo che nella gestione delle risorse umane, risulta una chiave di successo quella di saper creare relazioni sane, basate sulla valorizzazione dell’altro e delle risorse che ognuno può mettere in campo qualora si senta motivato a farlo. Risulta quindi fondamentale la capacità di sapersi relazionare con un gruppo di lavoro e, per coloro che si occupano della sfera commerciale e promozionale, di saper anche motivare la clientela.
Il problema spesso è che la relazione con gli altri rispecchia la relazione che abbiamo con noi stessi. Profondamente, mi sento davvero una persona di valore? Ho davvero fiducia in me stesso? L’immagine che abbiamo di noi risente inoltre di costrutti immaginari fondati su una falsa dimensione di personalità.
Proviamo a fare un esempio. Se sono una persona nella cui prima fase di vita si sono rinforzati dei codici di insicurezza, scarsa stima di sé e un sentimento di incapacità nell’affrontare le difficoltà, possono delinearsi due profili di personalità adulta: l’insicurezza può confinarmi nell’assumere un ruolo professionale di scarsa responsabilità e dipendenza dai colleghi, oppure farmi costruire una struttura granitica difensiva, che mi consenta di mostrarmi all’esterno come una persona forte, sicura di sé, capace di prendere decisioni. La verità di me stesso, però, se sono attento e inizio a guardarmi da una prospettiva diversa, emerge dalle mie reazioni nel rapporto con l’altro e da quanto egli mi mostrerà facendomi da specchio.
Entrambe le situazioni ci mostrano una medesima base di partenza, probabilmente una storia infantile nella quale si è stati lasciati da soli ad affrontare difficoltà o responsabilità troppo grandi, e nella quale le normali espressioni di paura e insicurezza non sono state accolte e accompagnate. Per qualcuno può esservi stato anche il condimento di critiche e mancanza di fiducia da parte delle figure importanti di accudimento. In entrambi gli esempi, si è costruita una falsa personalità: nel primo caso un adulto che si ritiene incapace e vittima degli eventi e che rimane congelato nelle proprie insicurezze, nel secondo caso, invece, una personalità arrogante e sempre convinta della propria verità, che ha scisso dalla propria coscienza la paura e la fragilità. Sono due facce della stessa medaglia, malgrado uno sguardo superficiale possa tendere a sopravvalutare la seconda ipotesi, soprattutto nel campo professionale. Di fronte a un evento improvviso che rompa la maschera di forza, una struttura di personalità rigida può, infatti, risentire di un crollo che espone l’individuo, ad esempio, a depressione o stati di ansia incontrollati.
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Quando un manager si trova a voler (o a dover) guidare un’azienda o un reparto di essa, la storia personale può convertire la sua conduzione in uno stile autoritario e autoreferenziale, anziché autorevole e aperto all’ascolto, oppure a essere eccessivamente influenzabile e insicuro nelle scelte e nella direzione da intraprendere.
Per la crescita personale, che si riflette nell’ambito professionale, è spesso consigliabile un percorso a ritroso nella propria storia, alla ricerca delle sfere emozionali rimaste irrisolte e bloccate nell’immaturità, al fine di entrarvi in contatto con la capacità adulta di accettarle ed elaborarle. Rabbia, paura, gelosia, invidia, sono emozioni la cui gestione si blocca spesso a una capacità propria della prima età infantile.
Certamente la migliore dimensione di tale lavoro di autoconoscenza è quella psicoterapeutica. Qui sfatiamo un mito che si nutre, soprattutto nel nostro Paese, di falsi pregiudizi e di una cultura ingenua. La psicologia non si occupa tanto dei disturbi mentali patologici – per i quali, onestamente, può fare ben poco – quanto di condurre l’individuo alla conoscenza, all’integrazione e allo sviluppo di parti di sé rimaste sconosciute e inascoltate nella propria ombra (o inconscio che dir si voglia). Citiamo allora il consiglio di uno fra i più grandi maestri delle scienze psicologiche, Carl Gustav Jung: «Rendi cosciente l’inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita, e tu lo chiamerai destino». Quando si è alla guida di un’organizzazione aziendale, il proprio destino finisce anche per convergere con il destino dell’azienda.
La nostra verità emozionale, quando non ne siamo consapevoli e quindi non possiamo gestirla, arriva a dominarci di fronte a situazioni relazionali o eventi che ci mettono in difficoltà. Posso, per esempio, decidere, mentre sono calmo, di non tradire un superiore riguardo ad un errore importante commesso nei confronti dell’azienda, pur consapevole che da tale errore può nascere una mia promozione al suo ruolo. Qualche giorno dopo, sollecitato da una situazione in cui il mio orgoglio viene ferito, decido di riscattarmi e il mio bisogno di sentirmi importante mi farà spifferare l’errore compiuto dal mio superiore. Con il tempo mi pentirò di questa azione, perché non è stata frutto di una scelta, ma lo scaricamento di una tensione. Qualcosa in me ha preso il sopravvento, mi ha fatto reagire, e mi ha condotto all’autotradimento dei miei valori.
La via di un’efficace relazione con gli altri è, quindi, la via di una sana relazione con noi stessi, attraverso la conoscenza e l’accettazione, tutta interiore, di quelle parti di noi che non desideriamo né vedere, né mostrare agli altri, spingendole verso profonde regioni dell’inconscio.
Quale immagine ho di me stesso? Auguratamente, quella reale. Conosco le mie risorse e i miei pregi, e li metto a frutto. Conosco anche i miei limiti e le mie fragilità, e mi prendo cura di esse cercando, quando necessario, un collaboratore competente. Affinché gli altri non mi debbano sopportare, ma decidano di seguirmi e sostenermi, non ho bisogno di mostrarmi infallibile, ma di essere una persona vera.
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