Quando l’imprenditorialità incontra finanza e politica

Da rampante ingegnere e piccolo industriale torinese ad amministratore delegato di Fiat, dalla presidenza di Cir fino al ruolo di guida del gruppo editoriale l’Espresso

L’idea che ha trasformato Carlo De Benedetti da rampante ingegnere e piccolo industriale torinese, in un personaggio che per decenni è stato protagonista della finanza e dell’economia italiana e in parte anche europea, è nata da un’incompatibilità ambientale. Per capirla prendete l’autostrada che da Milano porta a Torino e pochi chilometri prima di arrivare nell’ex capitale sabauda, guardate alla vostra sinistra. Vedrete una serie di fabbriche e fabbrichette, capannoni molti dei quali ormai abbandonati. Comunque stabilimenti piccoli, da Brambilla si direbbe se fossero in Lombardia. In quella zona c’era la Flexider, azienda metallurgica fondata dal padre dell’Ingegnere, Rodolfo, dove lui lavorava. Quella era la sua plancia di comando; attorno a sé, nella rugginosa periferia industriale torinese, quando alzava gli occhi dalla scrivania non vedeva altro che fabbriche e fabbrichette. E non era un gran bel vedere per chi pur stando in quel postaccio aveva inclinazione per sogni e progetti: la finanza e i suoi giochi magici, le stanze che contano, i poteri forti. Chissà quanto volte ha detto fra sé. «Ma che cosa ci fa qui uno come me?» E chissà se il 26 gennaio scorso quando ha convocato una conferenza stampa per annunciare che avrebbe lasciato ogni carica nelle società da lui fondate (tranne quelle editoriali) avrà pensato a quel luogo, alla Flexider, dove tutto è incominciato? Non lo sappiamo. Quello che si sa con assoluta certezza è che fin dalle origini di quella carriera che lo avrebbe portato a diventare uno dei condottieri italiani con Raul Gardini e Silvio Berlusconi e a contendere a Gianni Agnelli il primato del capitalismo nostrano, De Benedetti, ha sempre usato una ricetta fatta di tre ingredienti: un grande coraggio imprenditoriale, definito dai suoi nemici ai limiti della temerarietà; una capacità fino allora mai vista in Italia di usare gli strumenti messi a disposizione dalla finanza; e il ricorso all’arma della politica, nel senso più vasto del termine. Tre ingredienti cucinati sempre con il fuoco lento di una tenacia e di una capacità di lavoro senza molti paragoni. In particolare, la politica, è stato proprio quello che lo ha portato alla ribalta la prima volta. Era il 1972, anno di relazioni sindacali molto tese, e De Benedetti era membro del comitato esecutivo dell’Amma, l’associazione delle imprese metallurgiche e meccaniche che poi avrebbe dato vita alla Federmeccanica, protagonista per decenni delle battaglie con i sindacati. In una riunione dell’Amma, lui ha preso la parola e ha fatto un intervento duro che ha colpito i presenti e in particolare Walter Mandelli, presidente dell’associazione e futuro fondatore di Federmeccanica, che ha espresso su di lui il giudizio tipico che un anziano dà di un giovane promettente: «Quello farà strada».Previsione azzeccata. Di lì a poco l’Ingegnere ha tirato fuori dal suo mazzo di carte l’altro suo asso pigliatutto: la finanza. Assieme al fratello Franco, ha preso il controllo della Gilardini, una vecchia società che ai tempi si occupava di operazioni immobiliari ed era quotata in Borsa. I fratelli De Benedetti hanno conferito le aziende fondate dal padre alla Gilardini che così è diventata qualcosa di simile a quello che oggi si chiamerebbe una holding di famiglia. Era una realtà piccola anche per i tempi, ma De Benedetti ha saputo farla crescere, mettendola anche al vento con il potere reale torinese, la grande mamma: la Fiat. L’Ingegnere e la sua Gilardini sono diventati fornitori della casa automobilistica della famiglia Agnelli. Dice di lui un collaboratore che gli era a fianco proprio in quell’epoca: «Era un gregario, ma puntava alla maglia rosa».Per realizzare i suoi disegni, dopo i primi passi da imprenditore e da finanziere, c’era bisogno di un altro passaggio politico e ai più alti livelli. E a questo De Benedetti si è dedicato diventando nel 1974 presidente dell’Unione industriali di Torino, in fondo la più importante d’Italia perché fra gli iscritti a quell’associazione imprenditoriale c’è la Fiat, che allora contendeva il ruolo di numero uno dell’industria automobilistica europea alla tedesca Volkswagen. In più la Fiat, come noto, era ed è di proprietà della famiglia Agnelli, il membro più importante di quel salotto buono dei potenti nel quale l’Ingegnere voleva entrare.L’anno della presidenza De Benedetti era cruciale. C’era appena stata la grande crisi energetica del 1973; l’industria dell’auto, in tutto il mondo, era in ginocchio, la Fiat sembrava debolissima, a portata di mano di chi avesse una forte spinta imprenditoriale, abilità politica, facilità di accesso ai mercati finanziari e una buona dose di spirito di avventura. De Benedetti aveva tutto questo, e in quantità sovrabbondanti. Un altro suo stretto collaboratore di quei tempi, parlando con Business People, ha ricordato: «Con la presidenza dell’Unione, De Benedetti è subito stato sotto i riflettori. Tutti pensavano che quel brillante imprenditore avrebbe puntato diritto alla presidenza della Confindustria. Lui lo lasciava credere, ma aveva in mente un obiettivo ben diverso: voleva la Fiat. Non voleva più essere un semplice fornitore della grande casa automobilistica, puntava alla stanza dei bottoni e alla cassaforte. E a me lo disse esplicitamente: “Lei lasci che tutti pensino che io voglio andare in Confindustria, e intanto noi ci occupiamo della Fiat”. Ed è stato così: da quel giorno tutte le nostre energie sono state concentrate proprio su quell’obiettivo».

Il baratto FiatIl grande sogno di De Benedetti si è realizzato nel 1975. Gli azionisti di maggioranza della Fiat, cioè la famiglia Agnelli, hanno accettato uno scambio, un baratto per quei tempi del tutto inusuale. L’Ingegnere ha conferito alla casa automobilistica il 60% della sua Gilardini (il resto era flottante) in cambio di un 5% della stessa Fiat più la carica di amministratore delegato. Era fatta. È diventato famoso il primo discorso che De Benedetti ha tenuto ai dirigenti del gruppo riuniti nella scuola di formazione aziendale di Marentino: «Mi fa piacere conoscervi. Devo però subito dirvi che 3 mila di voi sono di troppo e se ne dovranno andare». Una battuta che non è servita a dargli molta popolarità nell’ambiente, a creargli consensi. E infatti il servizio permanente attivo dell’Ingegnere in corso Marconi 10 a Torino, allora sede della casa automobilistica, è durato poco più di tre mesi. Dopo cento giorni, De Benedetti è uscito sbattendo la porta, rivendendo agli Agnelli quel 5% di Fiat che aveva avuto in cambio della sua Gilardini per una cifra compresa fra gli 80 e i 100 miliardi di lire. Sulle ragioni di questo improvviso divorzio è stato detto di tutto. Un’opinione prevalente è che l’Ingegnere avesse cercato di scalare la società, di sottrarla alla famiglia Agnelli e che avesse anche trovato finanziatori disposti ad affiancarlo nell’impresa. Però resta un’opinione mai stata sorretta da prove concrete. Quello che è certo è che De Benedetti ne è uscito un po’ ammaccato nell’immagine, ma con in tasca una quantità di miliardi che rappresentava una fortuna. In un capitalismo come quello italiano tradizionalmente a corto di capitali, lui era invece immensamente liquido. Con quella somma ha comprato la Cir, ex conceria quotata in Borsa, che per anni è stata la capogruppo, la cabina di regia di tutto il suo impero. È inutile qui ricostruire tappa per tappa tutta la marcia trionfale di De Benedetti e anche le sue clamorose cadute. È storia nota e più volte raccontata: si va dai trionfi dell’Olivetti, dell’Omnitel, della Valeo, del Credito Romagnolo, ai passi falsi della Sme e dell’Ambrosiano alla bruciante sconfitta subita in Belgio a opera dei francesi di Suez quando ha tentato di scalare la Sociétée Générale de Belgique. Da ricordare è il suo innamoramento per l’editoria che lo ha portato ad affiancare, prima, e subentrare poi a Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari nell’Espresso e nella Repubblica. Da ricordare perché è proprio qui, nell’editoria, che si sono saldate le peculiarità riscontrate in tutti i 50 anni di carriera Dell’Ingegnere: l’imprenditorialità, il fiuto finanziario e la capacità di utilizzare la politica. De Benedetti, che ora è cittadino svizzero, ama definirsi un cosmopolita, un uomo della globalizzazione. Lo sarà anche. Certo è che quelle tre componenti che sono state alla base della sua fortuna sono tipiche della cucina italiana.

L’IMPERO

Cofide: compagnia finanziaria De Benedetti: è stata fondata nel 1976, è quotata a Piazza Affari e controlla la Cir- Compagnia Industriali Riunite

Cir: è la holding di famiglia e controllata al 48% da Cofide. Cir è una società operante nel settore delle concerie, che De Benedetti acquisisce nel 1976 e trasforma in holding di partecipazioni industriali

Gruppo Editoriale l’Espresso: la società opera nel settore media. Ne fanno parte il quotidiano La Repubblica e il settimanale L’Espresso

Sogefi: è una società operante nella componentistica per autoveicoli. Fondata nel 1980, è posseduta per il 56,6% da Cir

Sorgenia: opera in svariati ambiti della filiera energetica. La proprietà di Sorgenia Holding è ripartita da un 68,1% di Cir e un 31,9% dell’austriaca Verbund

Holding Sanità e Servizi: è un gruppo sanitario operante nell’assistenza sociosanitaria, nella riabilitazione e nella psichiatria. Il 65,4% è controllato da Cir

M&C (Management & Capitali): è una società di investimenti in progetti di turnaround e di sviluppo strategico e industriale. È stata costituita alla fine del 2005

Jupiter Finance: è una società specializzata nell’acquisto e gestione di una vasta gamma di crediti problematici generati da banche, società finanziarie, aziende e pubblica amministrazione. È controllata da Cir

Oakwood Global Finance: è una società internazionale specializzata in servizi finanziari retail innovativi e ad alta crescita. È controllata da Cir e da Merrill Lynch.

© Riproduzione riservata