Due fratelli, un’idea e tanta voglia di mettersi in gioco. È nata così, nel 2022, Steve’s. L’obiettivo era ambizioso: interpretare in modo sostenibile il settore calzaturiero italiano, noto per la sua eccellenza, ma anche molto inquinante. Il risultato è una giovane impresa che in breve tempo ha già mosso passi da gigante, tra vendite online, corner in Rinascente e una collaborazione importante come quella con Azimuth Yachts. E che mira a crescere ancora sia in termini di retail che di assortimento prodotti.
Tanto che ormai i suoi fondatori, Giulia e Filippo Gandini, hanno lasciato i loro precedenti lavori – lei nell’Hr in Ferrero, lui come consulente in Ernst & Young – per dedicarsi interamente alla loro impresa.
Ci raccontate come è nata l’idea e, soprattutto, come siete riusciti a realizzarla?
Giulia: Tutto ha preso il via durante la pandemia, quando ci siamo trovati per ore chiusi in casa e connessi al computer per lavoro. È stato in quel momento che abbiamo iniziato a pensare di voler costruire qualcosa di nostro e, sulla base delle nostre passioni e di un po’ di ricerche, siamo giunti all’idea di produrre una scarpa. Ma non una qualsiasi. Volevamo riuscire a proporre una sneaker che unisse l’estetica e il lusso della qualità made in Italy con una componente valoriale e ambientale che non trovavamo adeguatamente rappresentata sul mercato. Abbiamo iniziato studiando il mercato per capire se ci fossero reali possibilità di inserimento, per poi passare ad analizzare il processo di produzione delle calzature e, in parallelo, i materiali innovativi disponibili per comprendere quale fosse il più adatto ai nostri scopi. Volevamo per le nostre sneaker un materiale bio-based bello e di qualità, di produzione italiana, e che impattasse meno possibile sull’ambiente: per questo abbiamo lavorato con un ente terzo certificatore per misurare questo aspetto. Solo al termine di tutto questo processo, durato quasi due anni, siamo passati a individuare un calzaturificio che potesse farsi carico della produzione. E benché la fase di ricerca fosse avvenuta nelle Marche, note proprio per la produzione calzaturiera, abbiamo deciso che fosse opportuno trovarne uno in Piemonte, dove potessimo essere maggiormente presenti. È stato così che a giugno 2023 siamo arrivati a lanciare la nostra prima collezione The New Origin.
Come ha risposto il mercato?
Filippo: Direi sorprendentemente bene, tanto che la prima collezione è andata sold out dopo appena un anno e mezzo. Come diceva Giulia, l’idea è stata proporre un brand che a un posizionamento alto in termini di qualità unisse una componente valoriale nella quale il mondo del lusso è ancora oggi piuttosto carente. La difficoltà era comunicarlo al mercato nel modo giusto e la scelta che alla fine si è rivelata vincente è stata quella di partire dalla moda per affiancarle il concetto di sostenibilità e non viceversa. Abbiamo iniziato con le sole vendite online, sponsorizzando Steve’s tramite campagne social o eventi selezionati, in modo da avere un controllo diretto su eventuali problematiche, resi e via dicendo. Poi, dopo appena tre mesi, siamo stati contattati da Rinascente per aprire dei pop-up store nei loro store. Abbiamo iniziato a Torino a ottobre e poi ripetuto a Roma nella primavera successiva. È stata una grande opportunità non solo per farci conoscere, ma anche per ricevere feedback sul prodotto da parte degli acquirenti e, molto importante, anche da parte di chi invece decideva di non procedere con l’acquisto. Questa esperienza ci ha fatto capire che anche la vendita in negozio poteva essere per noi un asset essenziale. Inoltre, è stato proprio così che siamo venuti in contatto con i responsabili marketing di Azimut Yachts, per i quali abbiamo realizzato un modello personalizzato. Dopo l’interesse di Rinascente, questa collaborazione ha rappresentato per noi una sorta di seconda validazione della bontà della strada intrapresa.

Alcune scarpe della collezione Legacy
Approfondiamo la questione sostenibilità: oltre alla produzione delle sneaker con materiale bio-based, come si concretizza?
Giulia: Il nostro approccio vuole essere il più possibile sostenibile a 360 gradi. Per questo già in fase di selezione delle componenti abbiamo lavorato con un ente di certificazione che ci aiutasse a individuare i materiali che meglio coniugassero la qualità tecnica e il livello di impatto ambientale. Ed è così che, per esempio, per la tomaia abbiamo scelto Uppeal, un materiale ottenuto dalle bucce e dai torsoli di mela recuperati dalle aziende melicole dell’Alto Adige. Alla fine, tutto questo lavoro ha fatto sì che un paio di Steve’s abbia un impatto di 4,83 kg di CO2 contro i 12-15 kg di un normale paio di sneaker. Dopodiché per noi essere sostenibili significa anche produrre interamente in Italia, con una filiera cortissima e trasparente, tanto che sul nostro sito sono indicati tutti i fornitori. Inoltre, proponiamo i nostri prodotti in scatole di latta 100% riciclata, trasformabili in un vaso dove piantare i semi contenuti nella nostra brochure informativa. Infine, tutte le nostre vendite sono legate al sostegno di specifici progetti ambientali. Anche per documentare tutto questo lavoro, nel 2025 siamo diventati Società Benefit e stiamo valutando se, in futuro, divenire anche B Corp, visto che abbiamo già tutte le carte in regola per fare questo passo.
Ora quali saranno i prossimi passi?
Giulia: Lo scorso anno abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding per raccogliere i fondi necessari all’ideazione e al lancio della nuova collezione, che vedrà la luce nel mese di giugno e rappresenta un importante passo per la nostra strategia. Se, infatti, per i primi due anni ci siamo focalizzati su un prodotto minimal, che coniugasse gli elementi base che dicevamo prima e ponesse l’attenzione sui valori di sostenibilità e made in Italy alla base del nostro brand, ora siamo pronti a lanciare tre nuovi modelli, ciascuno in quattro diverse varianti, che rappresentano l’evoluzione naturale dello stile di Steve’s. Con Legacy, la nostra nuova collezione, abbiamo voluto guardare a modelli iconici di scarpe sportive del passato per innovarle in chiave contemporanea. Pensiamo che questo sia un primo passo verso uno stile sempre più senza tempo che puntiamo ad ampliare nei prossimi anni fino ad arrivare alla proposta di un total look. L’altra strada su cui ci stiamo muovendo è quella del retail, sia portando i nostri prodotti in alcuni negozi multimarca, sia attraverso degli store di proprietà. In questo senso inizieremo con dei temporary in località turistiche per testare le diverse location e poi, in futuro, apriremo dei veri e propri monomarca.
Filippo: Inoltre, dopo avere iniziato in due, con la sola collaborazione del designer che ci segue per la realizzazione delle scarpe, abbiamo assunto prima una persona che si occupasse a tempo pieno della comunicazione online e poi una che seguisse la comunicazione off-line, individuando eventi strategici in linea con il nostro posizionamento cui prendere parte. Per esempio, è quanto abbiamo fatto durante l’ultimo Salone del Mobile di Milano. Il sogno, ora, è quello di avere una persona interna che metta su carta le idee di prodotto sia lato sneaker sia, in futuro, per un total look, mantenendo comunque la collaborazione con il designer che ci segue ormai da due anni in fase di realizzazione finale.
Nessun’altra collaborazione in vista?
Giulia: Su questo fronte siamo molto cauti. Perché se da un lato un grande player come Azimut Yachts ci ha aiutato in termini di posizionamento e vendite, dall’altro non vogliamo rischiare di diventare dei produttori per conto terzi, ma desideriamo valorizzare il nostro brand.
L’Italia è nota come un Paese poco favorevole per i giovani che vogliano intraprendere la strada imprenditoriale. Voi che avete già maturato esperienza, che tipo di consiglio potete dare a chi vorrebbe trasformare in realtà la sua idea di business?
Giulia: È vero, è una strada spesso in salita ed è normale, a volte, sentirsi scoraggiati, ma se si segue un progetto in cui si crede davvero, vedere la propria idea diventare realtà e, come nel nostro caso, arrivare a toccare con mano il prodotto per cui si è lavorato tanto, è la cosa più appagante del mondo.
Filippo: Quanto a consigli, mi sento di darne due. Innanzitutto, se possibile trovare un co-founder, possibilmente una persona con competenze complementari alle proprie, per condividere le fatiche così come le soddisfazioni. In secondo luogo, concentrarsi su prodotti o servizi in cui l’italianità sia un valore aggiunto. Penso, per esempio al food o all’artigianalità made in Italy, ma anche a servizi legati a esigenze e normative locali e, quindi, difficilmente replicabili all’estero. Perché altrimenti, per come funziona nella Penisola il mercato dei capitali, un’idea simile oltreconfine raccoglierebbe risorse molto più velocemente e, di conseguenza, avrebbe un vantaggio competitivo difficilmente colmabile.
Questa intervista è stata pubblicata su Business People di giugno 2025, scarica il numero o abbonati qui