La Pmi italiana è grande

L’Iva per cassa e il ddl sui tempi dei pagamenti tracciano la rotta per il sostegno alle piccole aziende, patrimonio non solo della penisola, ma di tutto il Vecchio Continente. Così cambia la prospettiva comunitaria rispetto alla microimpresa. Intervista a Raffaello Vignali vicepresidente della commissione Attività produttive alla Camera dei deputati

Il deputato Raffaello Vignali è comprensi­bilmente soddisfatto. È stato lui il relato­re dell’emendamento al decreto sviluppo che ha introdotto il principio dell’Iva per cassa (ovvero del versamento dell’impo­sta sul valore aggiunto indicato in fat­tura solo dopo il saldo della stessa) per le im­prese con meno di due milioni di fatturato. E si tratta di un provvedimento che tocca – e agevola – la quasi totalità delle Pmi italiane, fornendo loro dell’ossigeno in tempi in cui avere un po’ più di liquidità può significa­re la salvezza stessa dell’azienda. In combinazione con il re­cepimento della direttiva europea sui tempi dei pagamenti (che impone a pubblico e privato, salvo pochi casi specifici, di pagare il proprio fornitore entro 60 giorni dall’emissione della fattura), il dispositivo dovrebbe produrre da subito ef­fetti positivi non solo rispetto al versante delle aziende, ma anche sul fronte del prelievo fiscale, generando un circolo virtuoso per cui l’Agenzia delle Entrate avrà tutto l’interes­se a controllare che i pagamenti da cliente a fornitore sia­no effettivamente avvenuti. Altrimenti non incasserà l’Iva. Ma questo è solo il primo passo verso una semplificazione che a parole non sembra troppo lontana, mentre nei fat­ti continua a lasciare appiedati centinaia di potenziali bu­siness e preziosi punti di Pil nazionale. Oltre che migliaia di posti di lavoro. Abbiamo chiesto al vicepresidente della commissione Attività produttive alla Camera dei Deputati come vede il futuro. Quello dell’Italia, e il suo.

Onorevole Vignali, avete incontrato difficoltà per far pas­sare l’Iva per cassa? Cominciamo col dire che la legge coinvolge una platea po­tenziale di quattro milioni e 380 mila imprese, al netto dei professionisti. Abbiamo preso le mosse dallo Small business act del 2008, lavorando anche in Europa perché ci fosse permesso di alzare il tetto a due milioni di euro. Il termine per l’approvazione era il 31 dicembre 2012, così che il re­gime potesse partire il 1 gennaio 2013. Noi abbiamo col­to l’opportunità per fare una piccola, positiva forzatura, per far sì che la legge entrasse in vigore con un mese di antici­po. Ed è stata una delle poche cose concrete che si potes­sero ragionevolmente fare. Per rispondere alla sua doman­da, no, ostacoli in Parlamento non ne abbiamo trovati. Da questo punto di vista il lavoro in commissione, con il sup­porto dato dal presidente e anche dal governo, è stato fin da subito agevole. E questo ci è stato utile soprattutto per ot­tenere la quantificazione del provvedimento. Quando si fa un provvedimento, al di là della copertura, serve la quanti­ficazione. Se se ne è sprovvisti, si fornisce alla Ragioneria di Stato la scusa per dire che la copertura non è sufficiente.

A quanto ammonta la quantificazione? L’Iva per cassa ha un costo bassissimo: 11,9 milioni di euro per il 2012, 0,5 milioni di euro per 2013 e 0,5 milioni per il 2014. Questo perché lo Stato ha solo un costo finanzia­rio, legato agli interessi.

E non ci sarà un contraccolpo rispetto alle entrate, per le meno nell’immediato? Non c’è nessun contraccolpo. E uno dei motivi per cui il Tesoro è d’accordo con l’introduzione dell’Iva per cassa è che rispetto ai contribuenti si è allineato tutto in termini di entrate e uscite. Mi spiego: chi fino a oggi riceveva fattu­ra, la deduceva subito senza necessariamente averla pagata, e senza aver quindi permesso al fornitore di versare l’Iva. A partire da oggi, invece, l’Iva si versa quando la fattura è in­cassata, e chi la paga la deduce solo in quel momento. Ri­sulta tutto più semplice, soprattutto rispetto al controllo fi­scale. Ma l’Iva per cassa va considerata complementare a un altro dispositivo.

Quello sui tempi del pagamento, approvato a novembre? Esatto, il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema del decreto legislativo che recepisce la direttiva europea sul tema, i cui termini scadevano in realtà il 15 marzo. Esisteva già una direttiva sui tempi di pagamento, ma di fatto era di­sapplicata. Nel nuovo disposto le regole sono più stringen­ti, ma il vero fattore di discontinuità, grazie all’Iva per cas­sa, sarà il fatto che da adesso il fisco ha tutto l’interesse per­ché le aziende si paghino regolarmente. L’Iva per cassa, di fatto, crea un’alleanza tra fornitori e fisco, in quanto ora è interesse del fisco andare a controllare che i pagamenti sia­no stati effettuati. Altrimenti l’Iva lo Stato la perde tutta, e definitivamente. Ecco perché è un meccanismo a somma positiva, perché a fronte dei costi di interesse di cui parla­vamo prima, lo Stato guadagnerà terreno rispetto alle mi­nori entrate.

Una pietra miliare, ma la strada da fare è ancora lunga.L’Iva per cassa evita anche guai impropri. Lo sa quante aziende sono saltate perché non hanno ricevuto il saldo delle fatture emesse, non sono quindi riuscite a pagare l’Iva, e sono incappate in Equitalia? Il provvedimento non è la soluzione, certo, ma quel 20% di liquidi che rimangono in cassa sono ossigeno vero.

Che altro serve per normalizzare la situazione? Le cose da fare sono quelle di sempre. Tre le più urgenti: innanzitutto la questione della semplificazione normativa-burocratica. Per i tempi lunghi del nostro sistema lasciamo sul tappeto ogni tre-quattro punti di Pil. Non parlo solo dei costi del non fare nel pubblico, ma anche di quelli del pri­vato. Qualche esempio? Noi stiamo bloccando un investi­mento da tre miliardi di euro, come quello dell’Enel a Por­to Tolle, dove si potrebbero creare 5 mila posti di lavoro. Stiamo impedendo a Ikea di aprire a Pisa. Oppure se pen­so alla provincia di Lecco, a casa mia, per citare soltanto i casi delle aziende più grandi, a causa della burocrazia stia­mo tenendo fermi mille posti di lavoro. Ecco, sommiamo tutto questo e molto altro, e ci renderemo conto di tutto il Pil a cui stiamo rinunciando. In secondo luogo, bisogna la­vorare sul fronte credito: tempi dei pagamenti e Iva per cas­sa sono due contributi, ma la liquidità rimane un problema serio. Con le banche che devono anticipare le regole di Ba­silea 3, che sono depressive dell’economia perché impon­gono di stringere i lacci della borsa, c’è chi stima addirittu­ra la perdita di un punto di Pil.

Qual è la terza questione? Le tasse, naturalmente. L’ultimo dato relativo alla tassazio­ne media sugli utili di impresa parla del 68,5%.

Con Giuseppe Tripoli, garante delle Pmi, come vi state coordinando? C’è un dialogo costante, e non potrebbe essere altrimen­ti: la figura del garante delle pmi è contenuta nello Statuto delle imprese, unico caso di Mr Pmi in Europa con poteri di legge. Lo Small business act parte dall’assunto che l’Eu­ropa si è finalmente accorta che esistono le pmi. D’accor­do, da noi rappresentano un dato mostruoso, non solo in termini percentuali ma anche in valore assoluto, visto che le pmi italiane sono il triplo di quelle della media europea. Ma se nella Penisola il 98% delle società è composto da microimprese, nel resto d’Europa sono circa il 90%. Quin­di sta cambiando l’orientamento nell’imporre le regole alle aziende, capovolgendo il principio secondo il quale le nor­me vanno create pensando alle grandi società e poi adatta­te a quelle più piccole. Si sta puntando alla semplificazione e a un principio di proporzionalità, senza più pretendere di stabilire leggi a taglia unica e per tutti i settori. Basti pensa­re al tema della sicurezza sul lavoro: è uguale per tutti, certo, ma siamo sicuri che occorra applicare alla piccola softwa­re house gli stessi obblighi che servono per la Thyssen? Si­mile discorso per il rispetto della privacy: un conto è quel­lo che si dovrebbe richiedere a Telecom, un altro è quello per il negozio di telefonini. Se non si segue questo principio l’imbianchino e la parrucchiera possono essere paragonati al petrolchimico di Marghera, e il barbiere dovrebbe rispet­tare gli stessi standard di un ospedale. Il tema della revisio­ne dei controlli attraverso il principio di proporzionalità sta iniziando a fare breccia. E per fortuna: se l’asticella delle re­gole è troppo alta, viene la tentazione di passare sotto. Ma attenzione, anche il fatto che ci siano più enti che control­lano la stessa cosa è fonte di corruzione.

Si spieghi meglio, può farci un esempio? Un artigiano decide di aprire un laboratorio all’interno di un palazzo storico di pregio. Se sul rubinetto che installa nel bagno intervengono la Asl, l’Arpa, i Vigili del Fuoco e an­che i Beni culturali, e tutti questi enti gli dicono cose diver­se, a un certo punto l’imprenditore può solo scegliere se pa­gare la multa o la marchetta. Serve un controllore unico, e molto severo, e al massimo un soggetto soprastante per fare ricorso gerarchico. Certo, se qui ognuno dice la sua…

A proposito… il suo futuro politico, quale sarà? Penso di andare avanti a occuparmi di imprese. Sono con­vinto che l’Italia debba avere una vocazione manifatturie­ra. E dobbiamo crescere con ambizione, avvicinarci alla Germania, mettendo da parte il sentimento antindustria­le che ha caratterizzato il Paese negli ultimi anni. Questo è ciò di cui voglio continuare a occuparmi.

Facendo riferimento a chi…? Io resto della mia parte, con il Pdl. Partiremo con le pri­marie, e io sosterrò Alfano. Vogliamo creare una squadra di persone che siano sulle questioni, una squadra credibile e spendibile. Io non posso stare con chi crede che sempli­ficare voglia dire comprimere diritti o avere posti di lavo­ro migliori, ma in minor numero. La forza del nostro siste­masta proprio nel suo alto tasso di imprese. E poi vorrei evi­tare che ci fosse un impoverimento del ceto medio, perché ciò implicherebbe un impoverimento complessivo dell’Ita­lia. Credo che la libertà, compresa quella economica, non sia un nemico pubblico, ma la prima risorsa strategica di un Paese. Sicuramente lo è del nostro.

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