Nati con la camicia

Da indumento intimo a passe-partout del guardaroba maschile, la dress shirt è diventata il rituale mattutino su cui si misura l’eleganza e la disinvoltura di un uomo

Solo un dandy come lo scrittore e giornalista Tom Wolfe, celebre per aver definito “radical chic” gli intellettuali benestanti di sinistra degli anni ‘70, conserva ancora oggi l’abitudine di cambiare il colletto della camicia ogni mattina ed eventualmente anche due volte al giorno.

Ne ha una collezione vastissima, inamidati e di diverse forme a seconda delle occasioni, abbinabili a una altrettanto vasta collezione di camicie su misura. Ma quella che un tempo era una consuetudine della classe dirigente, i cosiddetti “colletti bianchi”, è diventata il vezzo di pochissimi: nessuno cambia più solo il “top” della camicia dal secondo dopoguerra, quando la diffusione di lavatrici, ferri da stiro e confezioni industriali ha reso la dress shirt un bene riproducibile, accessibile e lavabile con facilità.

Anzi, alcune categorie di persone, e la maggioranza dei giovani sotto i vent’anni, rinuncia volentieri a tutta la camicia, non solo ai colletti, così come diversi stilisti, almeno alle ultime sfilate per la stagione primaverile del prossimo anno. Si sono viste diverse T-shirt e magliette polo o a dolcevita in passerella, anche sotto gli abiti formali, ma non si può certo dire che questa sia la soluzione più elegante (secondo un criterio non eccentrico) o sia diventata la regola.

Dalle catene di negozi specializzati in camicie industriali vendute con la formula del tre per due fino alle confezioni su misura, infatti, il culto della chemise non accenna a tramontare e aumentano invece i giovani manager con la passione per i dettagli sartoriali e l’ossessione per un certo tipo di colletto o di vestibilità.

Per chi nella camicia investe in termini di attenzione, tempo per la scelta e anche denaro, la Mecca non è solo Jermyn Street a Londra, tra le vetrine di Turnbull & Asser o di Harvie & Hudson (i migliori camiciai della tradizione inglese), ma anche la boutique Charvet di Parigi e soprattutto Napoli, dove alcuni piccoli e grandi artigiani non solo realizzano capi su misura, ma usano ancora l’ago e il filo, diversamente dagli inglesi che si sono definitivamente convertiti alla macchina da cucire. Ciò non significa che i prodotti della corona siano di minor qualità, perché una camicia è considerata sartoriale anche se solo alcuni passaggi vengono eseguiti a mano come il taglio dei tessuti e la rifinitura degli occhielli.

È chiaro che la prima caratteristica di un capo di qualità è il tessuto, e in questo senso niente pare superare il cotone finissimo prodotto dallo stabilimento Alumo in Appenzell, in Svizzera: questo filato è talmente sottile che mille metri di fibra pesano solo due grammi. Tanta leggerezza diventa batista o popeline per le camicie più eleganti e generalmente bianche, ma anche il cotone Oxford, più grezzo e robusto, o il twill, con armatura diagonale, hanno un loro pregio e una loro storia.Tra i grandi classici non bisogna infine dimenticare la seta, la flanella e la viyella, una stoffa mista lana-cotone molto apprezzata d’inverno nelle camicie sportive a quadri.

Sono principalmente cinque invece i dettagli di fattura che distinguono la confezione sartoriale: il colletto fornito di bacchette estraibili per una caduta perfetta, con punte vicine o aperte e lunghe o corte, in base alla forma del viso e al tipo di cravatta che si intende abbinare; il carré staccato dal resto della camicia e proporzionato alla statura della persona; la coincidenza nelle cuciture di eventuali motivi o fantasie (quadri, righe e altro); i bottoni di madreperla e le pieghe all’attaccatura delle maniche. I più esigenti non rinuncerebbero mai ai polsini alla francese, da allacciare con i gemelli, ma nella vita di tutti giorni questa raffinatezza risulta quasi eccessiva.

In ogni caso, vista la grande cura nella realizzazione e nella scelta della camicia, qualcuno si chiede perché mai il bon ton esiga che un gentleman non si tolga mai la giacca: l’usanza risale ai secoli passati, quando la camicia faceva parte dell’abbigliamento intimo e come tale non si doveva mai mostrare, a parte il colletto (che, appunto, era l’unica componente da cambiare ogni giorno).

Con il declino del panciotto negli anni ’60, conseguenza del miglior riscaldamento degli ambienti, la dress shirt è diventata più visibile e ha anche acquisito un taschino (comunque inutile perché nessuno si sognerebbe mai di sformarlo mettendoci qualcosa), ma l’obbligo di nasconderla sotto la giacca è rimasto.

Solo le camicie di jeans e le hawaiane a disegni floro-faunistici care a Magnum P.I si possono teoricamente indossare senza nulla sopra, ma fuori dagli ambienti formali è quasi tutto concesso, soprattutto d’estate. Anche i manager più impeccabili, dal venerdì pomeriggio in poi, slacciano la cravatta e tolgono la giacca, scegliendo poi il denim per tutto il week end.

Un grande contributo al comfort maschile lo ha regalato, infine, la camicia button-down, lanciata da Brooks Brother’s agli inizi del ‘900, che dall’iniziale ispirazione sportiva (il Polo) è entrata a pieno titolo nell’abbigliamento elegante. Restano solo un paio di tabù difficili da infrangere senza risultare sciatti oppure privi di gusto: i lembi della camicia fuori dai pantaloni e i colori troppo sgargianti come il rosa fucsia indossato da David Hasseldorf, sotto lo smoking, al festival di Cannes. Nel primo caso l’effetto “taglia sbagliata” (o improvviso sovrappeso) è inevitabile, nel secondo si rischia di diventare un feticcio kitsch.

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