Steve McQueen in Pirelli HangarBicocca

Dopo due anni di rinvii, a Milano apre i battenti l’attesa mostra dedicata al celebre artista

E finalmente Steve McQueen. Che di leggendario non ha solo il nome (omonimo all’indimenticabile attore americano degli anni 60), ma una carriera intera in perenne, funambolico equilibrio tra cinema e arti visive. Steve McQueen, poco più di 50 anni, fisico importante, londinese di discendenza africana, studi eccellenti tra Inghilterra e New York, ha firmato pellicole come 12 anni schiavo (tre Oscar, tra cui quello di miglior film, nel 2013) e Hunger (Caméra d’or a Cannes nel 2008 per miglior opera prima) e nel frattempo ricevuto riconoscimenti per le sue sculture e fotografie quali il Turner Prize che nel mondo dell’arte contemporanea conta come un Golden Globe.

Tutto il suo estro creativo ora occupa gli ampi spazi delle Navate di Pirelli HangarBicocca di Milano per una mostra – fino al 31 luglio, già in calendario da un paio d’anni, poi rinviata a causa del Covid – che definire “attesissima” sarebbe riduttivo: realizzata in collabo­razione con la Tate Modern di Londra, dove McQueen nel 2020 ha presentato 14 opere tra pellicole, fotografie e vere e proprie sculture e installazioni tanto che per la prima volta il museo londinese ha concesso a un artista vivente sia gli spa­zi della Modern che della Tate Britain, la personale in Italia presenta alcuni dei suoi lavori più rilevanti e un nuovo art­work.

Non mancano lavori come Static, l’i­conico film che presenta la Statua della Libertà a New York ripresa da un elicot­tero, in un movimento permanente e in­cessante che disorienta l’osservatore e ne rende instabile la visione. Se per il cine­ma ha realizzato infatti film già diventati cult – come appunto Shame, Hunger e 12 anni schiavo tutti con il suo “attore-fetic­cio” Michael Fassbender – il suo occhio si muove su tematiche simili anche in opere come Ashes e 7th Nov. I temi sono sempre gli stessi: gli irrisolti conflitti so­ciali, le questioni identitarie e storiche.

Ogni sua opera è una ferita, ogni fra­me un pugno nello stomaco per chi os­serva: Steve McQueen alza di continuo l’asticella della nostra attenzione e con­centrazione mescolando arte e denun­cia, protesta e anelito verso un futuro migliore. Frances Morris, direttrice del­la Tate Modern e Vincente Todolí, diret­tore artistico di Pirelli HangarBicocca – con quest’ultimo l’artista ha un lun­go sodalizio: quando Todolì era diret­tore della Tate di Londra, il museo ave­va prodotto due suoi film – hanno detto che McQueen «ci porta in quel luogo in cui siamo costretti a considerare la no­stra vulnerabilità e il nostro posto nel mondo». Ed è proprio così: questa è una mostra necessaria.

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