L’annuncio di Trump di dazi reciproci ha squarciato il velo di Maya: lo scorso 2 aprile, l’opinione pubblica, la politica, l’industria e la finanza si sono svegliati di colpo in una nuova epoca a cui non erano preparati. La politica “folle” della nuova amministrazione a stelle e strisce sarebbe, per alcuni, l’ennesima conferma del fallimento della globalizzazione, il mantra ripetuto dagli economisti dagli anni 90 al 2008. Secondo questa lettura, la rotta seguita dalla grande crisi a oggi è invece quella della deglobalizzazione, un processo che potrebbe portarci diritti verso una nuova divisione del globo: da una parte le economie dei Paesi democratici guidati dagli Usa, dall’altra le autocrazie con la Cina.
L’esito dal punto di vista economico potrebbe essere una profonda e lunga recessione, se non si arriverà a una soluzione costruttiva alla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ma anche ai conflitti armati tra Russia e Ucraina e in Medio Oriente. L’ormai moribonda Organizzazione mondiale del commercio (Wto), dopo il braccio di ferro a colpi di dazi a tre cifre tra le due principali economie del pianeta, si è lanciata in una previsione: spaccare l’economia globale in due blocchi potrebbe portare sul lungo termine a una riduzione in termini reali del Pil globale di circa il 7%.
Cosa fare, dunque, con i nostri investimenti in un mondo che va a rotoli? Una bussola per orientarsi è forse quella utilizzata da Russell Napier, storico della finanza britannico e stratega di mercato. In una recente intervista al sito finanziario elvetico The Market, Napier ha detto che le nostre decisioni finanziarie dovrebbero tenere presente un differente contesto economico, che vedrà la nascita di un nuovo sistema finanziario guidato dai principi del “capitalismo nazionale”, vista la necessità dei governi di indirizzare gli investimenti verso i propri obiettivi nazionali.
«E i nostri scopi oggi», ha aggiunto Napier, «sono gli investimenti in infrastrutture energetiche, nella difesa, in nuove capacità produttive per ridurre il rischio della Cina, come indicato da Macron o da Draghi, e anche dalle iniziative di politica industriale negli Stati Uniti». Napier ha le idee chiare su come si manifesterà il capitalismo nazionale nel mondo dei risparmi: «Pensate al vostro governo», ha concluso, «che impone a tutti i fondi pensione di acquistare una certa quantità di debito pubblico o di altre attività finanziarie nazionali. Ecco come sarà il capitalismo nazionale». Ma in Italia, forse, a questo ci siamo già abituati.
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