Se la gig economy fa male ai lavoratori, alle città… e ai pedoni

Paghe minime, pochi diritti e centri urbani invasi da furgoni e biciclette: il lato oscuro della rivoluzione dell'e-commerce a tutta velocità

Paghe minime, pochi diritti e centri urbani invasi da furgoni e biciclette: la gig economy ha un lato oscuro (scopri di più). Che fa male ai lavoratori, alle città e ai pedoni. Certo, fa comodo trovarsi a casa in 24 ore un libro preso su Amazon, o la cena a domicilio scelta in un ristorante dall’altra parte della città con Foodora. Ma a che prezzo? Minimo, per i lavoratori. Le app ci hanno cambiato la vita, riducendo i costi e aumentando a dismisura i servizi, ma sempre sulla pelle di altre persone.

Se la gig economy fa male ai lavoratori, alle città e ai pedoni

Contratti precari, assunzioni tramite cooperative, orari indefinite e tutele praticamente inesistenti: questo è il mondo dei lavoratori della gig economy, gli “omini” li avrete definiti qualche volta. Che portano la spesa a domicilio, che devono reggere il ritmo delle consegne e degli ordini da evadere. «Comunque, non viene fuori uno stipendio», dice a Repubblica Massimo Bonini, segretario della Camera del Lavoro di Milano e specialista di gig economy, l’ economia dei “lavoretti”. «Siamo al di sotto della sussistenza. Un discorso che vale per tutti, Deliveroo, Glovo, Justeat eccetera».

Ma questo impoverimento del lavoro va oltre, arriva fino a business più tradizionali come quelli delle compagnie aeree. Se Ryanair vive un momento difficile, è anche per gli scarsi stipendi del suo personale: gran parte dei lavoratori dipende da due società interinali irlandesi, Crewlink e Workforce, e che un assistente di volo – sempre che voli – lavora in media 180 ore al mese e che viene retribuito con circa 1.500 euro (a fronte dei 2.500 di tutte le altre compagnie).

Città invase da biciclette e furgoni

Ma questo ampliamento dei servizi a domicilio ha finito per congestionare i centri urbani, aumentando il traffico che brucia tra il 2 ed il 4% del Pil delle grandi città mondiali. La colpa è dei troppi camion e furgoni dell’e-commerce, secondo una ricerca di McKinsey. Tra il 2006 ed il 2014 il numero dei veicoli commerciali impiegati nel mondo è infatti passato da 250 a 330 milioni di unità, con un incremento del 32%. E il futuro sarà ancora peggiore: le attività legate al commercio elettronico dovrebbero passare dagli 880 miliardi di dollari di fatturato del 2015 ai 1.630 previsti per il 2020 (+85%).

In una città come Londra i veicoli commerciali rappresentano solamente il 10% del traffico veicolare, ma sono responsabili del 30% delle emissioni), mentre a Pechino la proporzione è 15%-70%. In scala ridotta, anche le città italiane si trovano a fare i conti con gli stessi problemi. Solo Poste Italiane ha in previsione di consegnare oltre 50 milioni di pacchi nel 2017 contro i 41 del 2016. Ed è solo metà delle spedizioni di e-commerce. «Le città sono il cuore dell’economia globale», scrivono gli esperti di McKinsey, «e rappresentano più dell’’80% del Pil mondiale. Strade, binari ed altre vie di comunicazione sono le arterie che nutrono questo cuore. E quando queste si intasano producono esiti molto gravi».

Per non parlare dei rischi immediati per i pedoni, tra furgoni che sfrecciano per rispettare le tabelle di marcia e bici a tutta velocità per aumentare il numero di consegne orarie.

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