Il lavoro oltre le sbarre

Cosa succede (davvero) nelle case circondariali. Non solo disperazione ma anche riscatto. Le mille storie di detenuti recuperati alla società attraverso attività economiche. Dai panettoni alle divise per i magistrati. Ecco chi sono e come hanno fatto

Spalano la neve, sbiancano le guglie del Duomo di Milano, realizzano costumi per compagnie teatrali, divise per i bambini delle scuole. Costruiscono oggetti in legno, realizzano articoli di pelletteria ecologica, riparano memorie informatiche, preparano pane, gelati, biscotti e panettoni, rispondono al telefono, e coltivano ortaggi. Sono lavori svolti dai detenuti delle carceri italiane. Non tutti, ovviamente, ma da quelli che vogliono rimettersi in gioco, darsi un nuovo ruolo nella società, apprendere un mestiere da che può essere un’ancora di salvezza quando usciranno di prigione. Se la situazione nelle carceri esplode, per sovraffollamento, per incuria delle istituzioni, per disinteresse dei cittadini che su questo tema non sembrano abbiano voglia di intraprendere battaglie civili, esiste però un mondo che crede nella riabilitazione dei carcerati attraverso il lavoro. E gli esempi di successo non mancano. Anzi, sono la grande maggioranza. In genere, infatti, l’idea imprenditoriale che nasce all’interno della casa circondariale viene “adottata” dal privato sociale (associazioni, cooperative, consorzi) e poi proposta alla direzione dell’istituto penitenziario ch l’approva e seleziona i detenuti che per talento o inclinazione rispondono ai profili richiesti. Per gli impieghi da svolgere all’esterno del carcere (raccolta di rifiuti o manutenzione delle aree verdi) è necessaria l’autorizzazione del giudice di sorveglianza che deve approvare l’ipotesi di un percorso riabilitativo fuori dal carcere. I detenuti a quel punto sono impiegati a tutti gli effetti: vengono formati, hanno un orario di lavoro, ricevono uno stipendio.

«Si tratta di attività che hanno un’incalcolabile valenza sociale», sottolinea il provveditore alle carceri della Lombardia Luigi Pagano. «I detenuti lavoratori hanno modo di mettere al servizio della comunità proprie conoscenze o di apprenderne di nuove, sviluppare lavoro in team, sentirsi utili e risparmiare i guadagni che, una volta usciti dal carcere, aiuteranno a rifarsi una vita». Il successo di queste esperienze, insomma, è da dividere tra chi le ha promosse e chi le realizza mentre a guadagnarci è soprattutto la società che ritrova un proprio componente pronto per dare il proprio contributo.

Uno dei casi più interessanti di lavoro in carcere riguarda la pluripremiata sartoria del carcere di San Vittore di Milano. «Da oltre 15 anni», racconta la direttrice Gloria Manzelli, «la cooperativa Alice che oggi conta sei detenute, gestisce un laboratorio di sartoria che nel corso degli anni ha realizzato abiti di scena per i teatri la Scala e il Regio di Parma, per trasmissioni Tv come Giochi senza frontiere e Veline e alcuni spot. L’ultima commessa è arrivata dal Ministero dell’Istruzione che ha ordinato una partita di grembiuli per una scuola elementare di Segrate». Di recente inoltre le sarte di Alice sono state coinvolte in una joint venture con Ecolab, l’omologa cooperativa del carcere della vicina Opera e hanno dato vita al marchio Gatti Galeotti che ha realizzato accessori in ecopelle per il gruppo Armani. Oggi, Gatti Galeotti è orientata verso la produzione di oggetti in Pvc riciclato che sono stati eletti a gadget aziendali dagli enti provinciali di La Spezia e Monza Brianza, e dalla Banca Popolare di Milano, dalle organizzazioni sindacali delle province Modena, Venezia e Roma, dagli enti museali Palazzo ducale di Genova e dal Museo della scienza e della tecnica di Milano.

Un altro marchio noto nel settore moda è Codice a Sbarre, una linea di abbigliamento ispirata alle divise dei detenuti, realizzata nel carcere di Vercelli. Il prodotto cult (il pigiama “Special edition” a righe) nel 2008 è arrivato a solcare le passerelle milanesi. Mentre quasi paradossale è ciò che è avvenuto a Bollate dove le detenute hanno confezionato le toghe per il giudice Paolo Ielo e altri 15 magistrati. L’altro settore nel quale i detenuti italiani dimostrano di poter dare molto è l’alimentare. In questo caso l’esperienza più interessante riguarda i famosi “Dolci di Giotto”, prodotti dolciari realizzati da una ventina di detenuti della casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Qui si preparano panettoni, colombe, veneziane, biscotti vari, e la Noce del santo, un dolce dedicato a Sant’Antonio che fa parte della storia gastronomica padovana. Il panettone, cavallo di battaglia del consorzio, è stato addirittura insignito dall’Accademia Italiana della Cucina con il Piatto d’Argento e premiato dal Gambero Rosso. Per le feste di Natale appena concluse venti detenuti pasticcieri hanno sfornato 13 mila chili di panettone. Ma nel carcere di Padova si lavora a ciclo continuo: nel luglio scorso i Dolci di Giotto hanno deliziato i palati dei grandi della Terra all’Aquila per il G8.

Tra le nuove iniziative l’inaugurazione del birrificio gestito dalla cooperativa sociale “Pausa Cafè”, all’interno del carcere Rodolfo Morandi di Saluzzo (Cn), che con una produzione di 10 ettolitri al giorno (circa 150 mila bottiglie l’anno), dà lavoro a tre detenuti. Poi ci sono i servizi. A parte il call center di Bollate, che impiega 75 detenuti e lavora anche per conto della Telecom, entro il 2015 si stima che tra 200 e 400 detenuti saranno arruolati per attività collegate all’Expo come il facchinaggio, il call center, le pulizie.

Belle storie che dimostrano che esiste una “forza lavoro” ancora poco, troppo poco utilizzata. Infatti i mestieri dietro le sbarre impiegano solo l’1% della popolazione carceraria, contano giri d’affari di poche centinaia di migliaia di euro e sono concentrati prevalentemente a nord. Al sud, nelle aree cioè nelle quali sarebbero ancora più urgenti, questo tipo di esperienze sono praticamente assenti. Ma la strada per la riabilitazione di chi è in carcere è ormai tracciata. Passa per il lavoro.

© Riproduzione riservata