Intervistando un cool hunter, c’è sempre un momento della conversazione in cui l’interlocutore sente il bisogno di spiegare un qualcosa che, parafrasando Eugenio Montale, mira a spiegare «ciò che non siamo e ciò che non facciamo». Dura fare uno dei lavori più interessanti ma anche più fraintesi al mondo. Colpa, si fa per dire, di un articolo pubblicato sul numero del 17 marzo 1997 del New Yorker, firmato da Malcolm Gladwell: The Coolhunt. In quel pezzo, l’autore presentava al mondo un mestiere, quello dei cacciatori di tendenze e ultime novità nel campo della moda, raccontando le gesta di due giovani cacciatrici di enorme talento.Sono passati 21 anni da allora ma, ancora oggi, per molti il coolhunting è un lavoro che consiste nell’andare in giro per il mondo, scattare fotografie e godersi la vita. Non è proprio così. È un qualcosa che mescola antropologia culturale, sociologia e marketing. Gladwell fece sembrare semplice ciò che non lo era allora e che oggi lo è forse ancor meno.
L’avvento di internet e dei social media, per certi versi, ha avuto un impatto profondo su questo lavoro. «Il cool hunting nasce come un’azione che permette di vedere cosa succederà o intuire quali sono i segnali che preludono a un cambiamento. I social network e tutto il mondo web hanno portato a una velocizzazione di questi segnali, che arrivano prima ma si concretizzano anche prima, questo perché sono più alla portata di tutti; c’è una comunicazione molto più rapida e quindi ci si muove molto più velocemente verso queste direzioni future e una moda che ci metteva un anno, un anno e mezzo ad affermarsi, adesso impiega due stagioni al massimo», spiega a Business People Serena Sala, coordinatrice del Corso di specializzazione in Cool Hunter dell’Istituto europeo del Design di Milano. Sotto altri punti di vista, invece, il coolhunting non è cambiato poi molto, perché è rimasto un lavoro di ricerca, naturalmente supportato da una tecnologia molto più avanzata.
I cacciatori, però, oggi si muovono su distanze geografiche più vaste, lavorano su dinamiche globali che poi si materializzano in contesti diversi, venendone a sua volta modificate. Ma, allo stesso modo, ragionano anche su distanze temporali più ampie: il cacciatore di tendenze non si occupa del colore che andrà la prossima stagione. «Quello non è il trend ma è già una sua decodifica. Faccio un esempio: nel prossimo futuro ci sarà un ritorno del marrone o di colori della terra che per decenni abbiamo completamente dimenticato ma questa informazione, che tra l’altro spiega il perché di certi volumi, va cercata all’interno di un contesto più ampio che ha a che fare con la sostenibilità, con nuovi modelli di business, con le nuove generazioni, con le distanze generazionali che ci sono tra la civiltà occidentale e quella orientale. Nel fare coolhunting, entrano in gioco tutte queste dinamiche», riassume la docente.
È sulle distanze temporali più ampie che questo lavoro rivela il suo potenziale ed è qui che ha il suo mercato più remunerativo. «Secondo me, una tendenza che si rafforzerà ulteriormente è quella verso una forte ruralizzazione, intesa non come ritorno alla fattoria ma come una ricerca di genuinità anche nei processi di pensiero, che si tradurrà nel rifiuto di cose duplicate e in una ricerca di originalità. La chiamo ruralità, perché arriva da una direzione che noi oggi stiamo già percorrendo e che chiamiamo sostenibilità, che due anni fa chiamavamo “naturale” e cinque anni prima “green” e tre anni prima ancora “riciclato”», sintetizza Sala.
A trasformare il mondo del coolhunting poi non sono intervenuti solo i social network, ma tecnologie avanzate come Big Data, A.I., IoS. In breve, il flusso di dati che è possibile raccogliere sulla propria clientela è cresciuto esponenzialmente e le società che si occupano di analisi, trend forecasting, previsioni di scenari – tutti ambiti che lambiscono il coolhunting e ne hanno bisogno – hanno cominciato ad allargare lo spettro di competenze dei propri dipendenti: ai sociologi, antropologi ed esperti di marketing, si sono aggiunti i cosiddetti data analyst e non solo loro. In un mondo in cui la previsione, intesa non come vaticinio ma come attività di sintesi di informazioni diverse supportate scientificamente, il mercato dei trend spotter, a sentire gli insider, è in costante crescita, anche perché questa tecnica di ricerca è applicabile non solo alla moda ma anche al design, all’enogastronomia, al packaging, alla cosmesi, alla comunicazione e al marketing.
Che il coolhunting da quella sorta di hobby raccontato da Gladwell sia diventato qualcos’altro, lo conferma il fatto che lo si studi anche al Center for Collective Intelligence della Sloan School of Management del Mit di Boston, dove lavorano studiosi di caratura mondiale come Peter Gloor, che con la sua società Galaxyadvisors sperimenta già quella che sembra l’evoluzione più diretta del coolhunting, il coolfarming, cioè la costruzione di trend in “laboratorio”, ma questa è un’altra storia.
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