Scossa all’economia

Dall’emergenza Emilia al modello virtuoso dell’Umbria, passando per L’Aquila, dove il mancato ritorno alla normalità è ulteriormente inasprito dalla crisi internazionale. Ecco come sono cambiati e stanno cambiando i distretti produttivi italiani colpiti dal terremoto.

Una delle prime cose che tiene a precisare Maurizio Torregiani, presidente della Camera di Commercio di Modena, è che non bisogna chiamarlo terremoto. Meglio sisma. «Terremoto evoca la parola terremotati, e in Italia la parola terremotati non porta fortuna». Purtroppo Torregiani, che insieme ai suoi associati sta affrontando i terribili effetti delle tre forti scosse che hanno colpito l’Emilia a cavallo di maggio e giugno, non ha tutti i torti. Senza scomodare lo scandalo dell’Irpinia, una ricerca condotta da David Alexander, professore presso il Cespro (Centro di Studio della Protezione Civile) dell’Università di Firenze, e tra i massimi esperti europei di grandi disastri, ha sottolineato che la ricostruzione dell’Aquila sta procedendo addirittura più lentamente che a Sumatra, colpita nel settembre dello stesso anno, il 2009, da una scossa che ha causato più di mille vittime. I risultati della ricerca Microdis condotta da Alexander in collaborazione con l’Università di Firenze, l’Università Politecnica delle Marche e quella dell’Aquila, sono stati pubblicati da il Fatto Quotidiano a giugno, e hanno messo in evidenza che il 71% dei 15 mila aquilani intervistati dichiara che la comunità è morta in seguito al sisma. Ma il vero guaio è che i danni all’economia locale generano effetti di lungo periodo ancora peggiori. Le primissime stime dell’impatto economico del disastro che ha colpito l’Abruzzo si aggiravano (considerando la distruzione degli immobili, i danni alle infrastrutture pubbliche, e la mancata produttività delle aziende aquilane nel post-sisma) intorno ai 7,5 miliardi di euro, mezzo punto di Pil italiano dell’epoca. E c’era chi ipotizzava che, con un intervento tempestivo, gli investimenti per le opere di ricostruzione avrebbero messo in moto un circolo economico virtuoso, con una crescita pari allo 0,75% del Pil. Quella previsione non si è avverata.

UNA CITTÀ DESERTAL’analisi di Francesco Prosperococco, direttore del Cresa (il Centro regionale di studi e ricerche economico sociali istituito dalle camere di Commercio d’Abruzzo), è impietosa: «Nel primo trimestre 2012 permane la crisi del sistema manifatturiero regionale, e si aggrava il calo dell’occupazione su base annua. Abbiamo inoltre rilevato variazioni negative per il fatturato generato all’estero. Anche le previsioni per i prossimi sei mesi non sono buone». L’economia abruzzese si fonda essenzialmente sulla piccola e media impresa artigiana e sulla presenza nel territorio di stabilimenti di multinazionali della farmaceutica e dell’automotive. «Queste ultime hanno reagito ai danni provocati dal terremoto sfruttando le proprie risorse, tanto è vero che nel giro di tre-quattro mesi sono tornate a essere operative. Il peggio lo stanno affrontando ora con la crisi, specialmente i poli produttivi del Chetino, dove si producono veicoli di marchi stranieri (Honda, Pilkington e Sevel, joint venture di Fiat e Psa, ndr). La Honda ha annunciato l’esubero di 303 dipendenti, metà dell’attuale forza lavoro della fabbrica, la Pilkington ipotizza di delocalizzare le attività, e 2.000 famiglie rischiano di rimanere senza lavoro. E in Abruzzo il 67% dell’export lo fattura l’automotive». Ma anche le piccole aziende, secondo Prosperococco, sono un problema vivo. «All’Aquila le imprese di stampo commerciale generavano il 30% del valore aggiunto incassato dal Comune. L’impatto del post-sisma ha fatto diminuire queste attività da 800 a 250. E nel centro storico ne sono rimaste solo una cinquantina».

IL MODELLO UMBROUn’emorragia dovuta al modello adottato nella gestione dell’emergenza prima e della ricostruzione poi. Un modello completamente diverso da quello seguito in Umbria dopo lo sciame sismico del 1997/98, che devastò alcuni paesi di collina e parte del patrimonio artistico del territorio, a partire da Assisi. Bruno Bracalente se lo ricorda bene. All’epoca il professore di Statistica economica dell’università di Perugia era il presidente della giunta regionale, e di concerto con il governo e i vari Comuni dovette affrontare una crisi che richiese una spesa di 15 mila miliardi di lire. «Il sisma colpì un’area già debole economicamente, e in via di spopolamento, se si fa eccezione per Gualdo Tadino, dove fiorisce l’industria della ceramica. Quello che dovevamo evitare era che il terremoto accelerasse l’abbandono dei centri urbani». La priorità fu data alla distribuzione dei modelli abitativi adatti alle specifiche esigenze degli abitanti e dei lavoratori, sistemati tutti in prossimità delle aree colpite dal sisma. Si trattava di container e casette di legno, senz’altro meno confortevoli delle case edificate a tempo di record nelle “new town” sorte fuori dall’Aquila. Ma a differenza di queste soluzioni più costose, hanno tenuto le persone vicino al fulcro delle esistenze che conducevano prima del terremoto, e hanno agevolato la ripresa delle attività normali anche nel corso della ricostruzione. Il modello umbro (anche se Bracalente tiene a precisare che non esiste un modello, e che ogni situazione, quando si tratta di terremoti, è un caso a parte) ha funzionato pure rispetto all’erogazione di aiuti al tessuto imprenditoriale, legato in questo territorio alle attività agricole e agrituristiche. «Non ci sono state iniziative eclatanti», spiega Bracalente. «I sostegni sono stati molto diffusi ma puntuali, con l’obiettivo di supportare soprattutto la piccolissima impresa e il lavoro autonomo, e sono stati finanziati dal governo e coi fondi comunitari che erano stati stanziati prima del sisma per spingere un’economia che come ho detto non brillava. Con una legge regionale abbiamo istituito un rimborso per il danno indiretto subito dall’interruzione delle attività economiche, riconoscendo attraverso un certificato il mancato guadagno delle imprese, in seguito al disastro». Bracalente sottolinea anche che i contributi sono stati erogati su base pluriennale, il che ha consentito di programmare gli interventi senza strozzature e senza fare troppe graduatorie per le gare d’appalto, raggiungendo una corrispondenza esatta tra previsione e fabbisogno reale di spesa. «Il tutto è stato coordinato attraverso il Piat (Piano integrato per area terremoto) con il quale, si è avviato un aggiornamento infrastrutturale del territorio».

PENSARE AL DOMANIPersa la chance di ingranare da subito un approccio del genere, con una governance tutta gestita a livello centrale che di fatto ha esautorato le amministrazioni locali, l’Abruzzo adesso attende che cominci la ricostruzione pesante del centro storico del suo capoluogo. «Questa situazione ha trasformato il nostro territorio in un Klondike dell’edilizia», dice Prosperococco. «Per quanto riguarda l’Aquila, il sisma ha fatto aumentare nel 2010 il numero di imprese di 800 unità, con un indice di crescita del 2-3%, quando la media italiana si aggirava intorno allo 0,8%. Poi la tendenza è rallentata per via dell’impasse causata nell’applicazione della normativa. Va poi detto», continua Prosperococco, «che le unità locali di imprese non abruzzesi sono passate da 35 mila a 37.700. Moltissime società, anche tra quelle attive nell’indotto, stanno cercando di cogliere la chance della ricostruzione per localizzarsi da noi. Calcoliamo che quando partiranno i lavori nel centro storico ci saranno 12-15 mila operai in giro per la città, 12-15 mila persone che al mattino avranno bisogno di altrettanti caffè». Una prospettiva che suona più che altro come una momentanea overdose di produttività. Ma una volta terminata la ricostruzione, che cosa rimarrà? In Umbria, l’euforia edilizia è già passata, e ora anzi il settore registra perdite del 20%. All’Aquila, complice anche la rinomata facoltà di Ingegneria dello storico ateneo abruzzese, c’è da sperare che per lo meno si sviluppi un polo d’eccellenza per lo studio di sistemi che contrastino efficacemente gli effetti dei terremoti di domani, chance che per esempio a Perugia non è stata colta.

L’EMILIA ROMAGNA È SCOSSA

I numeri che contraddistinguevano il distretto produttivo di Modena prima del sisma

700 mila

gli abitanti della zona

70 mila

le imprese registrate

5

il numero medio di addetti per impresa

11 mld

il valore dell’export modenese

7 mld

le imposte pagate dal distretto

37%

le imprese colpite

In Emilia Romagna la questione è tutta aperta. «Il sisma è appena successo, e non sappiamo nemmeno se è finito», dice Maurizio Torregiani. «Figuriamoci se possiamo prevedere come cambieranno le cose. La parte della provincia di Modena colpita dalle scosse fatturava il 37% degli 11 miliardi di euro del nostro export, un sistema di imprese che rappresenta tutti i settori economici. Abbiamo bisogno che il governo ci aiuti, se vuole tornare a incassare i 6-7 miliardi di euro che le nostre aziende versavano in termini di tasse dirette e indirette. Per questo forse non li chiamerei aiuti, ma investimenti. Anche perché sono convinto che se vengono contenuti i vizi burocratici, nel giro di tre-sei anni possiamo tornare a essere performanti come prima, anche se in modo diverso: abbiamo 70 mila imprese in un territorio su cui vivono circa 700 mila persone, il che vuol dire un’impresa per ogni nove abitanti. Ogni azienda mediamente lavora con meno di cinque addetti ed è ultraspecializzata. Penso che avremo bisogno di reti relazionali sempre più formalizzate, sia nella comunità sociale che sul piano economico, con rapporti più interdipendenti lungo tutta la filiera. Saremo in meno, ma non saremo meno produttivi. La mia convinzione», conclude Torregiani, «è che il sisma non abbia fatto altro che accelerare un processo di trasformazione che era già innescato, e che ora dovremo compiere nel giro di sei mesi anziché in sei anni».

Mentre in Giappone il sisma fa crescere il Pil

Molti pensavano che il disastroso terremoto del marzo 2011 avrebbe fiaccato il Sol levante. E invece nei primi tre mesi del 2012 l’economia giapponese è cresciuta più del previsto (1,2%, mentre le previsioni non andavano oltre l’1%). Se la tendenza rimane la stessa, a fine anno il Pil aumenterà del 4,7%, rivelandosi la performance più positiva tra le economie dei sette Paesi più industrializzati. Come fa notare Panorama, la crescita del Giappone era stata rallentata, oltre che dal sisma, dalla crisi dell’Euro e dalle alluvioni che lo scorso inverno hanno colpito la Thailandia, tra i suoi maggiori partner commerciali. Ma l’export è cresciuto, soprattutto nel settore automobilistico, anche se è aumentato l’import, a causa dell’aumento del costo dell’energia dopo lo stop alle centrali nucleari. Per il quotidiano nipponico Asahi Shimbun «è un’ottima notizia, ma con un aspetto negativo», visto che buona parte della crescita arriva dalle spese che il governo ha sostenuto per la ricostruzione nelle zone distrutte. Anche il Wall Street Journal ha puntualizzato che «le spese post terremoto del governo hanno funzionato un po’ come stimolo economico, garantendo circa il 40% del risultato». Fossero questi gli aspetti negativi dell’economia italiana…

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