Pensare in piccolo

“Think small first”. È il motto dello Small business Act. Ma dietro queste parole inglesi si cela il programma comunitario che punta a riprogettare anche il sistema burocratico italiano per far ripartire il cuore della nostra economia: le microimprese. Intervista a Giuseppe Tripoli, garante per le Pmi

Per sopravvivere, le microimprese hanno bisogno di autonomia e di automatismo. Non ha dubbi Giuseppe Tripoli, nominato garante per le piccole e medie imprese da Mario Monti, che di fatto, la scorsa primavera, ha confermato e ampliato il mandato che gli era stato affidato dall’ex ministro del governo Berlusconi, Paolo Romani. Tripoli oggi rappresenta il punto di contatto tra le regole del Mercato unico (sempre più stringenti anche nel particolare del delicato sistema produttivo tricolore) e le esigenze della miriade delle microattività che sul territorio italiano scontano ogni giorno di più le conseguenze della crisi, rischiando l’estinzione. Il suo compito è far sì che lo Small business act (il programma europeo per la valorizzazione di un tessuto economico che in tutto il Vecchio continente rappresenta il 90% del mercato) trovi esplicazione nello Statuto delle imprese, il suo corrispettivo nazionale. E soprattutto, che si evolva insieme alle regole comunitarie per liberare aziende e imprenditori da oneri non più sostenibili nell’era della competizione globale.

A che punto siamo rispetto alla tabella di marcia dello Small business act?

Cominciamo col dire che lo Small business act è un programma che si aggiorna costantemente, non è una tavola delle leggi immutabile, con obiettivi fissati indipendentemente dalla loro raggiungibilità. Al contrario: si evolve, e lo fa in base allo stato di avanzamento in cui si trova ogni Paese, e nell’ambito del ruolo che gli è stato affidato. Oggi gran parte della crisi economica la sopportano, oltre ai dipendenti delle società di media dimensione, le microimprese, a cui non rimane che chiudere. In particolare assistiamo alla moria di quelle attività nate come esternalizzazioni delle aziende più grandi e dei fenomeni di autoimprenditorialità. Per loro il momento è veramente disastroso. Diversa invece è la situazione per molte piccole imprese, che sono riuscite a traguardarsi sull’estero. Dunque, è a partire da queste premesse che si stanno evolvendo le modalità applicative dello Small business act, e direi che siamo sulla buona strada per il raggiungimento di alcuni obiettivi. Il recepimento della direttiva sui tempi di pagamento è stato, per esempio, un ottimo risultato, la semplificazione burocratica attraverso lo strumento dell’autocertificazione è al momento all’esame al Parlamento, e anche sul credito qualcosa comincia a muoversi. Su altri temi invece si è ancora molto indietro.

Di quali temi parla?

Dell’innovazione, prima di tutto. Nelle Pmi l’innovazione non può che basarsi su meccanismi automatici, come il credito d’imposta. L’unico strumento per ora previsto è il credito d’imposta per le alte professionalità, ovvero per l’assunzione in azienda di risorse con alle spalle studi qualificati. Ma le risorse sono limitate, nell’ordine qualche decina di milioni di euro. Spingere sul tema dell’innovazione in Italia oggi vuol dire cominciare a pensare a un fisco efficiente per le Pmi. Bisogna cominciare a considerare diversamente i costi per farle crescere e sviluppare, rispetto soprattutto al trattamento fiscale.

Quali altri adattamenti sta subendo il programma?

Da quando è stato messo in piedi, tre anni fa, l’attenzione si è spostata sull’internazionalizzazione, sul sostegno che serve per allargarsi sui mercati esterni all’Unione, limitando le barriere per le Pmi. E poi c’è il discorso legato agli appalti pubblici, alla costruzione di regole e sistemi che permettano alle aziende piccole di concorrere su un piano di parità con le più grandi, seguendo il principio del “Think small first”. Inoltre, esistono normative europee che pesano sulle piccole aziende, rivedendo le quali si potrebbe dare sollievo rispetto ad alcuni oneri burocratici. Non dimentichiamoci, infine, della grande partita degli aiuti di Stato: la regolamentazione, per quanto ci siano poche risorse – anzi forse a maggior ragione –, deve essere adeguata alla dimensione delle piccole aziende. In altre parole, serve che queste risorse, per essere utilizzate, non richiedano meccanismi complicati, come le fideiussioni per esempio, o altri tipi di procedure che in questo momento sono di difficile accesso.

Quali parametri vanno usati per regolamentare gli aiuti in modo che non vengano erogati, come è già successo troppe volte, a pioggia?

Si dovrà vedere tutta la disciplina nel dettaglio, ma una cosa è certa: gli aiuti non saranno mai più a pioggia. Per il semplice fatto che le risorse non ci sono più. E anche se bisogna ammettere che esiste un sistema di regole regionali e nazionali tale per cui il fenomeno potrebbe ripetersi, adesso non ci sono più soldi da buttare. Il ministero dello Sviluppo ha comunque cercato di razionalizzare il sistema tagliando oltre 40 di queste leggi (a partire dalla durata della concessione, passata da dieci a sei anni), e concentrando le risorse in un unico fondo, al quale si accede sulla base di tre parametri: innovazione, internazionalizzazione e reindustrializzazione. Per disboscare ulteriormente questa selva, ora sulle norme devono intervenire le Regioni.

Lo spreco di risorse è stato endemico soprattutto al Sud. Oggi di cosa hanno bisogno le Pmi meridionali?

I piccoli imprenditori del Sud chiedono che le risorse disponibili siano gestite attraverso la formula del credito d’imposta sugli investimenti. Il che comporterebbe autonomia e automatismo: se investo, e decido io dove investire, sono premiato.

In che direzione pensa che aumenterebbero gli investimenti se venisse introdotto il credito d’imposta? Digitalizzazione? Reindustrialiazzazione? Oppure acquisizione di competenze per l’espansione verso l’estero?

Tutte e tre le cose che ha citato. La terza, forse, è quella prioritaria. L’acquisizione di professionalità che sappiano guardare ai mercati esteri è fondamentale. Ci sono imprese molto piccole che pur di non soccombere oggi stanno ricorrendo al temporary management. In alcuni casi da sole, in altri aggregandosi in network, si sono pagate un manager a tempo che le ha aiutate a trovare sbocchi per l’export. È un fenomeno che abbiamo osservato soprattutto al Nord e al Centro, ora cominciano a farlo anche al Sud. È la modalità più concreta per avere un rapporto vero e non effimero con i nuovi mercati. E il credito d’imposta a cui penso io dovrebbe essere erogato con gradi diversi, premiando le imprese che si mettono insieme e che fanno rete in maniera concreta e stabilmente. Oggi la scommessa sulla nostra economia si gioca tutta sulle microimprese, o almeno su quelle che hanno le possibilità per farcela. E sono tantissime. L’alternativa è pensare che sono solo un peso per il Paese, che la chiusura di buona parte di queste corrisponde a un aumento dell’efficienza del sistema Italia. Ma non è così.

La Commissione europea ha avviato un’indagine per chiedere alle Pmi dell’Unione quali leggi, secondo loro, rallentano lo sviluppo. Come procede?

I risultati sono stati raccolti lo scorso dicembre attraverso il sito della Commissione, mentre noi ci siamo mossi per collegarci con le varie associazioni di categoria e ricevere le segnalazioni, ora toccherà a Bruxelles elaborare i dati e dare le risposte. Lo scopo dell’indagine è aiutare le imprese a capire da dove arrivano le norme che danno loro problemi, visto che si tratta spesso di leggi nazionali frutto del recepimento di direttive comunitarie, chiedendo anche il loro parere su come migliorarle.

La sua sensazione? Che risultati si aspetta?

Partiamo dicendo che l’attuale normativa europea è nata con lo scopo di dare precedenza alla creazione di un mercato unico. Anche se questo poteva voler dire attribuire più oneri alle imprese. I tempi sono cambiati. Oggi il mercato unico è ancora una risorsa importante, ma l’Ue si trova a competere con altre grandi aree economiche. Per questo la legislazione in favore del libero scambio deve rimanere un punto di riferimento, ma non potrà più determinare vincoli burocratici troppo onerosi per le aziende. Secondo lo Small business act, adesso è prioritario graduare i pesi burocratici, creando regole basate su principi di proporzionalità.

La situazione politica italiana è al momento turbolenta, e non si sa chi potrebbe esserci al governo tra qualche mese. Come potrebbe influire sul suo lavoro questa instabilità?

Guardi, parliamo di due livelli diversi. La situazione politica – come dice lei turbolenta – ha le sue dinamiche e un suo percorso. Il lavoro che svolgo si muove su altri binari, fa principalmente riferimento all’Unione, e finora non ho mai trovato alcun Paese che abbia su questo punto visioni diverse dalle nostre. Poi naturalmente ognuno le traduce secondo le caratteristiche e le tipologie dei settori in cui operano le Pmi nei mercati d’appartenenza, imprimendo alle singole iniziative un accento specifico. Ma siamo tutti ugualmente impegnati nella creazione delle condizioni che possono creare realmente occupazione, e accompagnare la crescita delle economie.

Le farò una domanda più diretta: non teme che il cambio della guardia al governo mandi all’aria il lavoro che è stato fatto finora, rimuovendo o sostituendo, per esempio, figure come la sua?

Le valutazioni sul nostro operato le darà chiunque sarà chiamato a farlo. Io penso che sia stato fatto tanto lavoro, tanto altro resta da fare. Vedremo.

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