Ci sono una tedesca una francese e una italiana…

Inseguendo il modello teutonico di banca pubblica. In Germania la Kfw, a supporto delle piccole e medie imprese, funziona talmente bene che Hollande ha deciso di adottarne la logica anche oltralpe. Nel Belpaese la Cassa Depositi e Prestiti potrebbe essere un buon punto di partenza per replicarne il successo. Ma servirebbe una riforma sostanziale dell’istituto

La Sividon Diagnostics di Colonia ha meno di tre anni di vita e un organico di 18 dipendenti, tra cui vi sono parecchi ricercatori che provengono dalla divisione Healthcare del gruppo Siemens. È una piccola azienda, la Sividon, ma un giorno potrebbe diventare grande e fare una mucchio di soldi, se il suo prodotto di punta riuscirà a sfondare sul mercato. Si chiama EndoPredict ed è una terapia anti-tumorale che consente di preparare delle cure molto personalizzate per pazienti affetti da specifiche tipologie di cancro. Nella stessa città, a poca distanza, c’è un’altra micro-impresa ancora sconosciuta al grande pubblico, che sta esplorando un business assai promettente. Si tratta della GreenPocket, realtà guidata dall’ex consulente Thomas Goette, che ha creato un innovativo software per misurare e controllare i consumi energetici domestici. Pur essendo molto diverse tra loro, queste due aziende made in Germany hanno qualcosa in comune: entrambe sono state finanziate negli anni scorsi dal fondo di venture capital del gruppo Kfw (Kreditanstalt für Wiederaufbau-Istituto di credito per la Ricostruzione), una delle maggiori banche tedesche, nata nel 1948 per amministrare i fondi del Piano Marshall e oggi interamente controllata dallo Stato: per l’80% dal governo di Berlino e per il restante 20% dalle amministrazioni dei Lander, cioè le regioni federali in cui è divisa la Germania. Esatto: all’interno della locomotiva industriale d’Europa le aziende più innovative possono contare su consistenti aiuti di Stato. Si tratta di una potenza di fuoco del settore creditizio che può contare su un patrimonio di quasi 500 miliardi di euro (si vedano le tabelle a seguire) e che ha in pancia uno stock di finanziamenti all’economia di oltre 436 miliardi.

Soltanto nel 2011, i prestiti erogati dal gruppo Kfw alle piccole e medie aziende hanno raggiunto un volume di oltre 22 miliardi di euro, di cui nove sono andati alle start up, altri 2,2 ai progetti di innovazione (in particolare alla ricerca e allo sviluppo in campo industriale) mentre quasi 11 miliardi sono finiti nel settore ambientale e delle energie rinnovabili, che si stanno affermando come l’unica alternativa possibile al petrolio. Senza il polmone finanziario della Kfw, insomma, l’intera economia tedesca sarebbe molto meno competitiva e, probabilmente, negli anni scorsi avrebbe incontrato non poche difficoltà nel riconquistare quel ruolo egemone nell’Area Euro, che adesso viene visto con tanta ammirazione e un po’ di sospetto dagli altri Paesi del Vecchio continente. Non a caso, il modello tedesco della Kfw sta ormai conquistando crescenti simpatie in tutta Europa.

Un ammiratore di questo capitalismo di Stato un po’ sui generis è senza dubbio il presidente francese Francois Hollande che, nell’ottobre scorso, ha creato la Banque Publique d’Investment (Bpi): una “cugina” della Kfw, al di qua delle sponde del Reno. Si tratta di un istituto di credito di diretta emanazione statale, controllato in maniera paritaria dal governo di Parigi e dalla Caisse de Dépôts Groupe (Cdc), la cassa depositi e prestiti transalpina. Proprio come la Kfw tedesca, la nuova creatura di Hollande finanzierà le imprese nazionali con una dotazione iniziale di risorse nell’ordine di 40 miliardi di euro: 20 miliardi di capitale, a cui si aggiungono altri 10 miliardi per l’acquisizione diretta di partecipazioni azionarie e ben 12 miliardi da impiegare nelle garanzie sulle linee di credito, concesse dalle banche alle piccole imprese. Certo, si tratta per adesso di cifre ancora lontane dal potentissimo arsenale a disposizione di Kfw. Ma rappresenta comunque un primo passo per la Francia, che si è incamminata su una strada da cui difficilmente potrà tornare indietro, almeno in tempi brevi. In altre parole, Parigi ha deciso di imitare Berlino e di adottare senza remore il modello tedesco della grande banca pubblica.

E l’Italia? Mentre in Francia sono già passati dalle parole ai fatti, a Roma e dintorni il dibattito su questi temi è ancora in corso: con l’approssimarsi delle elezioni, tornano a farsi spazio gli slogan e le idee ispirate alle teorie keynesiane che vedono con grande favore un nuovo intervento pubblico nell’economia, seppur sotto nuova veste rispetto ai decenni passati. È un’ipotesi avanzata, per esempio, dal segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, che nell’estate scorsa ha proposto di utilizzare i soldi della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) per dare sostegno alle piccole e medie imprese italiane (in partnership con le banche). Si è spinto oltre l’ex-ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che ha da poco fondato un nuovo partito: la Lista Lavoro e Libertà. Tra i progetti di Tremonti, ce n’è uno molto simile a quello di Hollande. Si tratta appunto della creazione di una grande banca pubblica italiana per il sostegno all’economia, attraverso la fusione di tre realtà complementari: la stessa Cdp, che ha in pancia una montagna di soldi, il gruppo Sace, che è controllato dallo Stato e opera nel settore del credito all’esportazione, più il Fondo Strategico Italiano, la holding (posseduta da Cdp) nata nel 2011 per acquisire partecipazioni in imprese di rilevante interesse nazionale. È un progetto, quello di Tremonti, chiaramente ispirato ai principi dell’economia sociale di mercato, in contrasto con il turbo-capitalismo americano che da Wall Street (a detta dell’ex-ministro del governo Berlusconi) ha trascinato sull’orlo del baratro l’intera economia mondiale, provocando una restrizione del credito in tutti i Paesi industrializzati e lasciando sul terreno molte vittime, proprio tra le piccole e medie imprese: tra quelle già attive, che hanno bisogno di soldi per andare avanti e tra quelle in fase di avviamento, che necessiterebbero di maggiori risorse per investire e crescere. Infine, a caldeggiare l’adozione di un modello simile a quello tedesco della Kfw c’è anche il presidente della Cassa Depositi e Prestiti Italiana: l’ex-parlamentare del Pds e dei Ds, Franco Bassanini. Nella consueta conferenza stampa di fine anno, Bassanini ha ribadito l’idea di utilizzare le risorse della Cdp per attuare delle politiche keynesiane, in altre parole per rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia. In effetti, come ha sottolineato Bassanini, la Cassa Depositi e Prestiti ha tante munizioni da sparare e un potenziale davvero enorme. La Cdp gestisce infatti un volume gigantesco di soldi e possiede attività per circa 300 miliardi di euro. Una cifra che, all’interno dell’economia italiana, ha un peso abbastanza vicino a quello delle attività di Kfw in Germania. L’istituzione guidata da Bassanini, però, si differenzia dal colosso creditizio tedesco per molte altre caratteristiche che rendono più difficile il suo intervento nell’industria nazionale. La Kfw è infatti una banca a tutti gli effetti e, come tale, per finanziarsi utilizza soprattutto una modalità: l’emissione di obbligazioni (bond). Si tratta di titoli ipersicuri, garantiti dal governo di Berlino e con rating tripla A (il giudizio di massima affidabilità finanziaria). Inoltre, i bond di Kfw sono titoli che hanno spesso una scadenza lunga (a tre, cinque, dieci o addirittura 30 anni) e che, proprio per la loro natura, consentono alla banca di sostenere progetti imprenditoriali e infrastrutturali di durata non breve, che danno frutti nel medio periodo. Per l’italiana Cassa Depositi e Prestiti, invece, la situazione è un po’ diversa. La Cdp, infatti, è una creatura ibrida: per circa 150 anni è rimasta una istituzione pubblica che aveva soprattutto due funzioni: quella di gestire il risparmio postale degli italiani e concedere mutui agli enti pubblici. Poi, come ha ricordato lo stesso Bassanini in una relazione dell’anno scorso, il governo di Roma ha compreso che la Cassa «poteva avere missioni più ampie e compiti più complessi» di quelli originari. Per questo, nel 2003 è stata trasformata in una società per azioni partecipata al 70% dallo Stato e al 30% da 66 fondazioni di origine bancaria. Lo scopo era quello di creare un nuovo polmone per l’economia. Questo cambiamento di pelle, però, non ha mutato una caratteristica importante della Cdp: per raccogliere soldi sul mercato, infatti, la Cassa utilizza una particolare tipologia di strumenti finanziari. Si tratta dei i Buoni Fruttiferi Postali, prodotti di risparmio garantiti dallo Stato che da tempo riempono il portafoglio di milioni di famiglie italiane (per una cifra che ha ormai raggiunto i 230 miliardi di euro). A differenza delle obbligazioni bancarie come quelle di Kfw, i buoni postali della Cdp sono titoli a vista. Ciò significa che ogni risparmiatore che li acquista ha diritto, in qualsiasi momento, a farsi rimborsare l’intero capitale investito (più gli eventuali rendimenti maturati), presentandosi semplicemente in uno sportello delle Poste. Per garantire la tempestività dei pagamenti ai risparmiatori, la Cassa Depositi e Prestiti deve dunque avere sempre a disposizione una consistente riserva di liquidità e di tesoreria (almeno 130 miliardi di euro), che non le permette di impiegare gran parte del denaro raccolto in investimenti a medio e lungo termine. Tra la metà del 2011 e il giugno del 2012 i finanziamenti della Cassa a favore delle imprese sono stati nell’ordine di quattro miliardi di euro: una cifra non proprio da buttare, ma che rappresenta ben poco rispetto ai 20-30 miliardi messi in campo ogni anno dalla tedesca Kfw, soltanto per le piccole aziende. Per avere un ruolo più attivo nell’economia, insomma, l’istituzione guidata da Franco Bassanini dovrebbe probabilmente fare un ulteriore passo in avanti o, addirittura, cambiare un po’ la propria pelle, dando vita a una realtà molto più simile al colosso bancario pubblico che esiste in Germania.

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